Articolo pubblicato su
Schermata 2012-10-21 a 09.39.31

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Naturali contraddizioni: le pietre che danzano
di
Giacomo Belloni

Nell'ottobre del 2007 Paolo Hermanin esponeva le sue opere alla Casina delle Civette, nel Museo di Villa Torlonia a Roma, in una splendida mostra dal titolo
Niente cambia di forma come le rocce, se non le nuvole. Due le riflessioni sul titolo dell’evento. La prima, forse la più immediata, si gioca a livello del significato della frase: com’è possibile accomunare due elementi tanto distanti tra loro come nuvole e rocce? Com’è possibile mettere a confronto la mutevolezza, l'irrequietezza, la caducità delle nuvole con la presenza immobile, la grave staticità e l'eterna immobilità delle rocce? E ancora, com’è possibile un paragone tanto audace che accosti tra loro concetti così antitetici?
La seconda riflessione è riservata a chi conosce il percorso creativo di Paolo Hermanin, fino ai suoi ultimi lavori -
le pietre che danzano - e l'attenzione che l'artista ha sempre riservato alla natura, soprattutto ad alcuni suoi elementi fortemente connotativi anche se in apparente contrasto tra loro. In questo caso, nelle pietre che danzano, il paradosso risiede nella possibilità che le rocce possano muoversi.
La mostra alla Casina delle Civette conteneva già
in nuce i principi che avrebbero caratterizzato il futuro creativo dell'artista, le pietre appunto. È come se i concetti di oggi fossero già ben solidi nel 2007 e che Paolo Hermanin avesse già chiara quale sarebbe stata l’evoluzione della sua ricerca. Nel 2007 proponeva, infatti, meravigliose incisioni sugli specchi: suggestive visioni di architetture vorticanti, intrecci rapidi di piante e nuvole, rocce e pietre, paesaggi, il tutto impostato su un'estetica di matrice burkiana, dove il disorientamento reverenziale diviene l'occasione per esprimere un sentimento sublime, inteso come quella sensazione estetica capace di generare emozioni intense ed inaspettate. Opere capaci di combinare tra loro concetti apparentemente opposti, uniti in una danza elegante e sinuosa che, con ritmo crescente, disegna ripide accelerazioni dove il punto di fuga della prospettiva è anche il fulcro naturale dell’opera: un’apertura ottica che, nella sua luce centrale, ci offre una possibilità salvifica. Giochi disinvolti e ricercati che si risolvono alternando una materia snaturata - rocce morbide, pietre leggere, grotte aperte e luminose, invenzioni di sapore piranesiano - e una natura smaterializzata, evanescente e provvisoria, resa inesauribile e immortale da un’invisibile forza soprannaturale.
Un percorso lineare e coerente quello di Paolo Hermanin, che parte da lontano e che nasce dalla voglia di sondare senza esclusioni il creato in tutti i suoi aspetti, in particolar modo quelli meno conosciuti ed evidenti, quelli caratterizzati da
innaturali contraddizioni. Egli sa bene che suo compito è svelarle ai nostri occhi, incapaci di vedere oltre le ombre riflesse sul fondo della caverna, per farci distinguere chiaramente una sintesi di ciò che percepiamo solo alla lontana, in maniera confusa, come impalpabile sensazione che, senza il lavoro dell’artista, rimarrebbe confusa in un’inutile vaghezza.
La
natura genera le sue forme per mezzo di processi laboriosi, attraverso regole proprie, autonome ed eterne, con meccanismi spesso troppo difficili per noi da comprendere. Paolo Hermanin lo sa, per questo ne è attratto e sente la responsabilità di doverla rendere leggibile alla nostra comprensione, attraverso quel lavoro di semplificazione e di sintetizzazione che solo il linguaggio dell'arte è in grado di elaborare attraverso un coinvolgimento multisensoriale. Le forme con cui la natura si esprime sono la risultante schematica delle sue infinite complessità e dei percorsi con cui si materializza alla limitatezza dei nostri sensi. In natura ciò che si concretizza ai nostri occhi è il risultato finale di costruzioni lente e pazienti sviluppatesi con ritmi per noi impensabili, perché estranei alle dinamiche contemporanee.
La
natura è arte e noi abbiamo l’inconscia necessità di comprenderla per far nostri i suoi principi. È arte anche per quella sua capacità di azzerare tutto e creare nuove forme, mai noiose, sempre avvincenti; come le nuvole che sono movimento incessante, emblema della mutevolezza, della purezza e del silenzio. Ma possono essere anche tempesta, uragano e tifone. Possono divenire forme di distruzione, capaci di annientare tutto ciò che sorvolano, di terrorizzare con il rumore squassante del tuono o con la luce accecante della saetta. Perché la natura può essere tutto, ma anche ciò che è opposto al tutto; vita e morte, crescita e distruzione. Le pietre che danzano vogliono esprimere la prodigiosa capacità della natura di essere, nello stesso istante, ogni cosa e contemporaneamente il suo esatto contrario, perché in Πόλεμος si esprime l'armonia e, solo nella tensione tra contrari si realizza l'equilibrio. Un apparente paradosso che è tale solo nella nostra abitudine di voler ridurre in concetti semplici la perfezione dell'infinito attraverso un lavoro di sintesi che non ci consente poi di comprenderne appieno la pienezza.
Litochoreia è il termine greco che tradotto vuol dire danza della pietra. Litochoreia identifica le sculture che danzano, opere che non sono ferme e immobili, intrappolate nel peso grave della materia; sono lavori che, al contrario, rappresentano un'instabilità leggera, in movimento sintonico e continuo con il vento e il mare che le modellano, in contatto epidermico con il territorio di cui fanno parte. Sono materia fluida e plasmabile, pesante solo nella loro fisicità e mai nella forma. Sono il prodotto artistico necessario per far intendere che, ciò che appare, è solo il pretesto ottico per un dovuto approfondimento sensoriale e percettivo. L’artista riesce a farci comprendere che in natura nulla è limitato e che anche le pietre possono muoversi e danzare. Perché nulla in natura è mai statico e le forme si plasmano senza sosta con movimento incessante grazie anche alle capacità moltiplicatrici prodotte dalla continua tensione tra opposti.
Perché la
natura è madre di tutto e per esserlo non ha limiti né confini, e si esprime con il continuo rinnovamento, mai riducibile alla modestia della staticità delle nostre interpretazioni.

io@giacomobelloni.com

Naturali contraddizioni
di Giacomo Belloni

Nel 2007 Paolo Hermanin esponeva alla Casina delle Civette, nel Museo di Villa Torlonia a Roma, in una mostra dal titolo
Niente cambia di forma come le rocce, se non le nuvole. Due le riflessioni sul titolo. La prima riguarda il significato della frase: com’è possibile accomunare elementi tanto distanti tra loro come nuvole e rocce? Com’è possibile mettere a confronto la mutevolezza e l'irrequietezza delle nuvole con la staticità e l'immobilità delle rocce? La seconda riflessione è per chi conosce il percorso di Hermanin, fino ai suoi ultimi lavori - le pietre che danzano - e l'attenzione che l'artista ha sempre riservato alla natura. La mostra del 2007 conteneva infatti in nuce i principi che avrebbero caratterizzato la sua ricerca a venire: meravigliose incisioni sugli specchi; suggestive visioni di architetture vorticanti, intrecci rapidi di rocce e nuvole impostati su un'estetica burkiana, dove il disorientamento reverenziale diviene l'occasione per esprimere un sentimento sublime. Opere capaci di combinare tra loro concetti apparentemente opposti uniti in una danza ritmica e sinuosa. Giochi disinvolti che si risolvono nell’alternanza di una materia snaturata - rocce morbide, pietre leggere, invenzioni di gusto piranesiano - e una natura smaterializzata, evanescente e provvisoria, resa inesauribile e immortale da un’invisibile forza soprannaturale.
Un percorso lineare quello di Hermanin, che nasce dalla voglia di sondare senza esclusioni il creato in tutti i suoi aspetti, in particolar modo quelli caratterizzati da
innaturali contraddizioni.
La
natura genera le sue forme per mezzo di processi laboriosi e con meccanismi difficili da comprendere. Hermanin lo sa, per questo ce la vuole rendere leggibile attraverso quel linguaggio che solo l'arte è in grado di elaborare attraverso un coinvolgimento multisensoriale. Le forme con cui la natura si esprime sono la risultante schematica delle sue complessità e dei percorsi con cui si materializza alla limitatezza dei nostri sensi. In natura ciò che appare è il risultato finale di costruzioni lente e pazienti, sviluppatesi con ritmi estranei alle nostre dinamiche. La natura è arte anche per quella sua capacità di azzerare tutto e creare nuove forme, proprio come fa con le nuvole: forme di rinascita ma anche di rovina e devastazione quando divengono tempesta. Perché la natura può essere tutto, ma anche ciò che è opposto al tutto; vita e morte, crescita e distruzione. Le pietre che danzano di Hermanin vogliono esprimere questa prodigiosa capacità della natura di essere nello stesso istante ogni cosa e il suo esatto contrario, perché in Πόλεμος si esprime l'armonia e, solo nella tensione tra contrari si realizza l'equilibrio. Un apparente paradosso che è tale solo nella nostra abitudine di voler ridurre in concetti semplici la perfezione dell'infinito, attraverso una sintesi che non ci consente di comprenderne appieno la pienezza.
Litochoreia è il termine greco che indica la danza della pietra. Litochoreia identifica le sculture che danzano, opere che non sono immobili, intrappolate nel peso della materia. Sono lavori che, al contrario, rappresentano un'instabilità leggera, in movimento sintonico e continuo con il vento e il mare che le modellano, in contatto epidermico con il territorio di cui fanno parte. Sono materia fluida e plasmabile, pesante solo nella loro fisicità, mai nella forma. Sono il prodotto artistico necessario per far intendere che, ciò che appare, è solo il pretesto ottico per un approfondimento sensoriale e percettivo. L’artista riesce a farci comprendere che in natura nulla è limitato e che anche le pietre possono danzare. Perché nulla in natura è mai statico e le forme si plasmano senza sosta grazie anche alle capacità moltiplicatrici prodotte dalla continua tensione tra opposti. Perché la natura è madre di tutto e per esserlo non ha limiti né confini, e si esprime con il continuo rinnovamento, mai riducibile alla modestia delle nostre interpretazioni.


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"È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?" Dostoevski, L'Idiota

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