Scritto critico della pubblicazione edita dalla Real Arte, agosto 2010

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Pierluigi de Lutti, il simbolo, il tempo e la materia
di Giacomo Belloni

L’elemento comune che risulta immediatamente evidente osservando le opere di Pierluigi de Lutti è la materia.
Le sue opere non ci offrono mai piatte stesure di colore su superfici bidimensionali; né le sue opere informali, né le
Doppie ferite, né altro.
La sua arte non è mai solamente pittura. Anche i lavori che più di altri possono essere classificati come dipinti hanno peculiarità espressive proprie e si differenziano per una loro tendenza ad essere opere
al limite delle definizioni classiche, al limite di ciò che comunemente chiamiamo pittura. Lo spessore volumetrico le caratterizza ponendole come protagoniste prepotenti nell’ambito spaziale che le contiene.
L’ingente quantità di materia utilizzata, l’abbondanza di pigmento steso, il frequente utilizzo di materiali
altri, sono tutte caratteristiche evidenti del lavoro di de Lutti; qualora classificassimo le sue opere solamente come dipinti, ne ridurremmo l’importanza espressiva e, di conseguenza, il loro contenuto comunicativo.
Le
Doppie ferite, per esempio, le opere che raffigurano le Twin Towers offese, potrebbero essere addirittura considerate vere e proprie sculture.
Nel nostro comune senso d’intendere e di classificare le opere d’arte sembra esserci un
limite oltre il quale un dipinto non può sporgersi verso lo spettatore, un limite oltre il quale non può “affacciarsi” verso il mondo del reale senza così perdere la propria connotazione essenziale; c’è un confine spaziale oltre il quale l’opera pittorica non sembra poter andare, oltre il quale non si può permettere di invadere lo spazio dell’osservatore; non è tollerata nessuna tendenza a volersi impropriamente impadronire di un contesto non proprio, ad invadere un ambito dal quale un’opera invece dovrebbe emanciparsi.
Rimanere intrappolati nelle definizioni classiche ci porterebbe a rischiare di perderci nello scontato; serve un’analisi che prescinda dal comune intendere.
La terza dimensione di de Lutti gli è essenziale per rendere nell’opera la sua ricerca creativa; lo sconfinamento volumetrico gli è necessario per restituire la complessità delle sue intenzioni artistiche.
Per de Lutti la
materia è il momento della verità, è struttura reale, nessuna finzione illusoria. La materia testimonia che l’opera c’è, che e lì, hic et nunc.
La matericità consente all’opera di uscire dalla finzione pittorica, le permette di sconfinare per divenire parte attiva di un mondo che normalmente dovrebbe esserle estraneo.
Il mondo esiste nel
tempo, esiste nello scorrere continuo di istanti irripetibili.
L’opera che scende dalla parete per allocarsi nello spazio “vero” si inserisce nel mondo e si appropria dell’elemento
tempo. La materia è parte necessaria dei lavori di de Lutti perché solamente così può rendere la non staticità temporale, la durata.
Materia
uguale tempo, ridefinizione contemporanea, volumetrica e tridimensionale del cubismo.
Il
tempo avanza ineluttabile, inarrestabile. Nell’onda del suo scorrere vi è l’essere incapace di fermare la finitudine che esso porta con sè.
Il
tempo contiene il mistero che porta alla conclusione e mostra tutta l’impotenza dell’uomo nell’affrontare il suo perpetuo avanzare.
Percepiamo con paura la finitudine nel suo scorrere inesorabile e veloce. Il suo trascorrere è irrefrenabile e, con lui, il senso di precarietà e di nullità, il transeunte.
De Lutti rende la caducità dell’esistenza che vive nel
tempo rappresentando la dinamicità del momento decisivo, catturato nell’opera per essere reso come istante cristallizzato.
Sant’Agostino definiva l’
infinito come il presente di Dio; de Lutti ha la necessità di “allungare” l’istante fuggevole per rendere il simbolo rappresentato universale e sempiterno.
Per far ciò de Lutti ha bisogno della terza dimensione. Il volume della
materia è il tempo che è parte della sua grammatica essenziale.
De Lutti non crea illusione dipinta. De Lutti crea l’
oggetto-opera che diviene simbolo. Le sue Doppie ferite sono fatte di materia reale: legno, metallo, cemento, pittura; le forme sono rigorosamente geometriche e divengono simbolo di una realtà evidente e riconoscibile, anche nella pura astrazione dell’opera. Non c’è alcuna necessità di apportare alla materia modifiche radicali successive per renderla simile al suo referente che rimane, nell’opera, inequivocabile ed implicito.
La torre, solamente la torre; nessun segno aggiunto per renderla reale o somigliante a ciò che è stato, perché non è possibile fare alcuna confusione.
Quel legno grezzo, grevemente offeso dal chiodo che lo fissa sulla tavola, o dal fuoco che lo purifica, è
simbolo ed icona di un occidente offeso, ferito.
E’ la torre in tutta la sua evidente semplicità ed inequivocità.
Questa è la sincerità del lavoro di de Lutti,
materia che diviene simbolo potente ed inequivocabile senza che ci sia bisogno di alcuna resa mimetica, senza che sia necessaria alcuna spiegazione successiva.
Il risultato dell’intervento artistico è la resa attraverso il volume pieno, senza alcun inganno artificioso che voglia restituire nessuna apparenza.
D’immagini - fotografie e filmati - del tragico evento del’11 settembre ne abbiamo viste fin troppe. L’estensione di cui parlava nel 1964 Marshall McLuhan in
Understanding media, oggi può essere identificata nei dispositivi elettronici capaci di fissare tutte le immagini di un mondo che ci scorre intorno troppo rapidamente per essere catturato con la normale velocità della mente. Dispositivi che servono a creare l’illusione di poter trattenere nella memoria l’immensità di tutto ciò che, come un fiume in piena, ci travolge e ci sommerge.
Scripta volant, verba manent. Tutto ciò che viene memorizzato su dispositivi esterni a noi diviene inevitabilmente uno scarico di responsabilità, tende ad essere dimenticato in quanto troppo facilmente rifruibile. Tutto ciò che si ha la capacità di mantenere saldo nella memoria rimane veramente un ricordo inestinguibile, uno di quei momenti che vale la pena ricordare. Nell’immensa quantità di immagini che ci riempiono lo sguardo, immagini fisse o in movimento, de Lutti distingue e seleziona per noi ciò che deve essere trattenuto.
Solamente immagini. Nulla esiste se non passa attraverso un’immagine. Nulla è mai esistito se non foto o video ripreso.
Vedo quindi esisto, esisto perché sono qualcosa da vedere, e da rivedere; esisto perché sono fissato nella memoria elettronica che mi permettere di continuare ad esistere in quanto ri-vedibile all’infinito.
L’immagine elettronica delle torri che crollano però, non fa altro che riportarci dentro il film dalle immagini eccessive che, troppe volte abbiamo già guardato.
Feuerbach osserva che la nostra epoca preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essenza. (Sontag, 1973)
L’importanza del lavoro di de Lutti sta nel fatto che con la sua opera riesce ad arrivare direttamente all’essenza; cattura quello che non riesce a fare l’immagine filmica. Ci trascina fuori dal cinema nel quale proiettavano il disastro, per mostrarci il dolore attraverso la crudezza del legno, la freddezza del metallo, o, a volte, la scabrosità del cemento.
La materia di de Lutti è il nostro contatto con il reale, è lo schiaffo sul viso che ci risveglia dal torpore surreale di un immaginario anestetizzato dalle immagini-surrogato del mondo.
Le immagini delle torri
morenti, che ciclicamente e continuamente ci vengono proposte, nell’abitudine a considerare l’immagine qualcosa di estraneo a noi, anche se reale, ci sottraggono la sensazione dell’evento accaduto.
L’abitudine anestetizzante alla velocità
fascista (Barthes) e alla continuità di proiezione del filmico ci pone su un altro piano, estraniandoci completamente dagli eventi sconvolgenti, anche se questi accadono proprio di fronte a noi.
De Lutti ci riporta nella stessa dimensione degli accadimenti. Cristallizza lo scorrere complesso dell’evento in un unico istante eloquente, ferma il tempo nel momento determinante; momento che non è quello della caduta delle torri, ma quello dell’offesa universale.
Nel lavoro di de Lutti ritroviamo sempre l’essenza, nel caso delle
Doppie ferite, l’essenza della tragedia.
Non esiste più l’evento ripreso nel suo divenire, in movimento, nel suo scorrere rapido; esiste solamente il fotogramma sintetico proposto dall’artista; il dramma non rimane più impresso nello scorrere del tempo ma, nell’effetto immobile che lascia fissato nel nostro sistema emozionale.
La ripetitività delle immagini filmiche non ci permette di percepire l’essenza del dolore perché la nostra abitudine a vedere scorrere immagini intorno a noi ci estrania dai fatti, ci anestetizza. L’immagine simbolica di de Lutti ci trascina a forza sul luogo degli accadimenti, ce ne sintetizza la drammaticità lasciandoci con il dramma profondo che ci vede attori impotenti di un nostro fallimento.
Se, nella semiologia di Peirce, il
representamen rimanda al suo oggetto per il conseguente rapporto associativo, se l’espressione rimanda al contenuto perché il contenuto causa l’espressione, emblematico è l’esempio nella correlazione fumo-fuoco (la presenza del fumo fa presagire la presenza del fuoco).
Nell’opera di de Lutti non vi è né il primo né il secondo. L’istante è simbolicamente espresso senza alcuna referenzialità, senza che ci sia stato il bisogno nemmeno dell’
indice semiologico di Peirce.
Il simbolo deluttiano è la sintesi pura del dramma percepito.


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"È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?" Dostoevski, L'Idiota
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