IL BAROCCO ROMANO

LA CITTÀ BAROCCA

Nella sua tessitura la città dei primi anni del ‘600, è carica delle ipotesi michelangiolesche e strutturata dal tracciato di Sisto V.

SISTO V (1585-1590)
(Domenico Fontana risoluto esecutore della sua politica urbanistica)
Il criterio da lui stabilito, consisteva nel collegare con grandi rettifili le sette basiliche principali che i pellegrini dovevano visitare, rendendo visivamente presenti, in alcuni punti strategici, coppie o gruppi di questi poli diminuendo così idealmente la distanza dei monumenti.
Sisto V era l’ultimo urbanista medievale od il primo dei moderni? L’importanza delle sei strade sistine non può essere valutata in toto senza una valutazione che contempli tutto il tessuto urbano da lui pensato ma non eseguito. Per dare luogo all’intero progetto non bastò il periodo di cui dispose il pontefice.
Venne accusato di interessi personali quando fece costruire a spese dell’erario i confini della sua villa percorsi da nuove strade.
Aspetto fondamentale del piano sistino è l’identificazione del problema funzionale della viabilità con il problema ottico della percezione diretta ed immediata della meta. Sono rettifili con chiara terminazione visiva.
L’obelisco divenne strumento compositivo essenziale. Esso era sfondo di un cannocchiale ottico costituito dalle quinte stradali ed elemento di mediazione e cerniera tra la direttrice della strada ed il monumento finale. La veduta non è più rigidamente frontale come nel Rinascimento e l’erezione di un perno verticale sul punto di convergenza tra asse stradale ed asse di simmetria della facciata del monumento è la corretta soluzione geometrica.
Altro fattore di collegamento ottico era la pavimentazione in mattoni che creava un fondo rossiccio e vibrante.

1623-1644 URBANO VIII, Maffeo Barberini.
Predisposizione per Bernini.
Sono gli anni in cui si ha lo scatto decisivo per la cultura barocca. Il suo merito è quello di aver portato a compimento un piano di restauro di chiese antichissime.
Affidamento al Bernini del Baldacchino e di Palazzo Barberini.
Grande importanza venne data da lui alla cinta muraria della città che venne ampliata.
Protezione a Tommaso Campanella.

1644-1655 INNOCENZO X, Gianbattista Pamphili
Protettore di Borromini grazie all’intercessione di monsignor Spada.
La sua attività urbanistica ha come epicentro Piazza Navona; alla sua caratterizzazione egli dedicò ogni sua energia promuovendo una serie di iniziative che fanno diventare questo spazio uno dei poli sociali essenziali della vita cittadina.
Altro suo intervento riguarda il completamento del Campidoglio michelangiolesco incompiuto che venne completato con la costruzione del museo.

1655-1667 ALESSANDRO VII
La sua passione costruttiva si concretò in una serie imponente di opere: piazza San Pietro, piazza Santa Maria della Pace (Pietro da Cortona) e piazza del Popolo.
Per meglio programmare le sue iniziative urbanistiche si era fatto costruire un modello in legno del centro della città. Se si pensa che aveva voluto fosse trasportato un feretro in legno come continuo richiamo all’imminenza della morte, si ha una prova interessante della complessa psicologia che non vedeva scissi la concezione secentesca dalla morte.


BAROCCO (Paolo Portoghesi)
1 INFINITO
a) PITTURA Continuazione dello spazio architettonico.
Abbandono dell’intelaiatura del quadro.
b) ARCHITETTURA Connessione tra esterno ed interno.

2 ILLUSIONISMO OTTICO Problema della percezione
Posizione (dinamica) dello spettatore
Facciata (diaframma)

3 FORMA LUCE/COLORE Spunto polemico del Caravaggio
Luce propria di Bernini (luce alla bernina)
Luce per Borromini

Acqua – Bernini – Senna
Travertino (porosità, caldo biancore)

4 CLASSICISMO e BAROCCO E’ su questo punto che si rivela radicale e decisa l’antitesi tra Bernini e Borromini (nuovo linguaggio)
- La chiave di questa rivoluzione è l’individuazione del parametro SPAZIO inteso come luogo dell’esperienza umana ed insieme qualcosa di denso, di corporeo)
SPAZIO INTERNO /SPAZIO ESTERNO
La ricerca spaziale è la strada ove si sviluppa il dibattito romano.

5 SENZA CONTRADDIRE GLI ANTICHI POSSIAMO ASSERIRE IL CONTRARIO DI CIO’ CHE DICEVANO. Continuazione e consapevole distacco.

Il Barocco non è un linguaggio unitario ma il denominatore di una pluralità di linguaggi con fine lo SPAZIO divenuto protagonista dell’immagine.

Il Barocco poggia su tre caratteri specifici tutti connessi con la cultura precedente:

  1. SPAZIO COME QUALITA’

  2. NUOVO RUOLO DELLA DECORAZIONE

  3. CRITICA RADICALE della sperimentazione del tardo ‘500.


Una volta Hegel ha osservato come tutti i grandi avvenimenti e personaggi storici si “producano” due volte: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa; “
La storia è radicale e attraversa molte fasi quando conduce alla tomba una vecchia forma. L’ultimo stadio di una forma storica è la sua commedia”. Questo procedere è in funzione del fatto che l’umanità si separi serenamente dal suo passato.

Paradossalmente il Fokker stabilì l’atto di nascita dell’architettura barocca nel 1568, quando fu posta la prima pietra della chiesa del Gesù, più di trent’anni prima che fosse dipinta nel 1602 la prima pittura barocca.
Si riconosce ad Urbano VIII un valore decisivo per la formazione del barocco.
Nella prima generazione non si può prescindere dal contributo di Domenico Fontana.

Gian Lorenzo BERNINI
Colui che ha contribuito quantitativamente a cambiare il volto della città.
Ruolo di mediatore. Le sue aperture e le sue estasi sono prudenti escursioni da una posizione di calcolato equilibrio.
Egli tenta la riduzione ad una visione ortodossa e in definitiva conservatrice; considera il classicismo come un vasto mare in cui tutto è contenuto
in nuce e in cui tutto può riassorbirsi, ama la natura e ne indaga la struttura… denuncia come pericoloso un rapporto artista-natura che non passi attraverso la classicità.
La sua posizione non è tanto eclettica quanto sintetica. Cerca una intima ragione strutturale dell’opera.
Nonostante l’antico sia per lui principio trova nel tragitto ragioni per liberarsi gradualmente del
dogma esplorando i margini dell’ortodossia e trovando nella interpretazione allegorica la chiave per conquistare momenti di assoluta libertà.

E’ la perfetta antitesi della posizione di Campanella che scrive: “
Il secolo futuro giudicherà noi, perché il presente crocifigge i suoi benefattori; ma poi resuscitano il terzo giorno o il terzo secolo”.

La sua biografia è una continua esemplificazione di una concezione della vita come spettacolo e come strategia sociale e mondana.

1629 Baldacchino di San Pietro. Commissionato al Bernini nel ’24 subito dopo l’assunzione al pontificato di Urbano VIII. Centro ideale della chiesa, asse verticale che fin dall’ingresso preannunziava l’altissimo sviluppo della cupola. C’era il problema della connessione in alto della quattro colonne. Questo problema lo impegno con impegno per quasi dieci anni fino alla risoluzione finale del Borromini che ne configura il manifesto dell’architettura barocca.
Altro fondamentale aspetto del baldacchino è la sua impaginazione spaziale nel vano della basilica, concepita ed attuata non in funzione di una visione statica da un punto di vista determinato, ma una visione del movimento. Percorrendo la navata difatti, oltrepassata la zona iniziale in cui la relazione è ancora tradizionalmente prospettica, si può verificare il sovrapporsi e l’agganciarsi delle cornici del baldacchino a quella della zona absidale e la ricchezza di relazioni che si stabiliscono tra la cupola, la volta, le colonne tortili e il coronamento creano un effetto di dinamicità spaziale legato alla regola scenografica del primo piano.

1629 Morte del Maderno. Urbano VIII lo insigne della carica di architetto della basilica vaticana e lo chiama a completare la progettazione per palazzo Barberini.

1634 Chiesetta a pianta ellittica all’interno del palazzo di Propaganda Fide.

Cappella Raymondi. E’ costituita da un corpo di fabbrica autonomo a sinistra della chiesa di San Pietro in Montorio. Organismo autonomo non condizionante per il Bernini che ebbe campo libero nella progettazione. La cappella si compone di tre parti: un vano a pianta quadrata coperto con volta a crociera, un abside ed un’appendice oltre l’inquadratura dell’altare nel fondo del quale viene posto il bassorilievo raffigurante San Francesco sorretto da due angeli. Quest’ultimo spazio profondo 70 cm è illuminato da una fessura che lo inonda di luce radente. Puttini che sollevano i coperchi dei due sarcofagi, San Francesco in estasi è sorretto da due angeli, alzandosi sulle punte dei piedi lo spettatore riesce a vedere i corpi marmorei dei Raymondi.
Nella scultura di Bernini il problema della luce, il modo di distinguere le superfici plastiche in funzione del loro valore riflettente è fin dall’inizio uno dei principali temi della sua ricerca. Nelle prime opere la configurazione plastica dei profili era studiata in funzione di una fonte luminosa posta genericamente in alto, da qui in poi la disposizione della luce diventa il risultato di una consumata regia, tale da suscitare nello spettatore l’impressione di una diversa realtà in contatto con quella in cui egli stesso agisce. L’
illuminazione radente a fonte nascosta che in età barocca si chiamava “luce alla bernina” la troviamo precocemente applicata nella Cappella Raymondi.

Monumento alla Contessa Matilde, eroina di Canossa, espressione del culto della storia necessaria alla Controriforma; si celebra e si espone la donazione alla Chiesa dei suoi possedimenti. Lo spazio creava problemi di impaginazione.

1638-1644 San Lorenzo in Damaso, Abside,
restauro. Per isolare la sua opera dal resto della chiesa quattrocentesca, Bernini si serve di lesene raddoppiate e doppio archivolto.

1644-1652 Cappella Cornaro. In quest’opera realizza per la prima volta la sua aspirazione allo “spettacolo totale” in cui architettura, scultura e pittura si fondono in un’unitaria immagine spaziale, senza l’impaccio di limitazioni gerarchiche.
La curvatura dell’edicola esprime un desiderio di sensibilizzazione della curva architettonica ed è il primo esempio berniniano di deformazione elastica delle membrature che Borromini aveva sperimentato in modo sistematico. Il suo tentativo è quello di raccontare un episodio al limite del soprannaturale, l’estasi di santa Teresa come lei la ha vissuta, cercando di raccontare come lei la abbia vissuta nella sua intensità

1646 La sua temporanea disgrazia presso la corte romana è legata alle vicende della costruzione dei campanili di San Pietro. Già nel pensiero del Maderno l’inserzione di due elementi verticali avrebbero aggiunto slancio plastico alla facciata. Dopo l’avvento di Innocenzo X Pamphili (1644) avvennero i cedimenti e nel giorno di Natale dovettero assistere umiliato all’abbattimento.

1650 Palazzo di Monte Citorio commissionato dalla famiglia Pamphili (la stessa del papa Innocenzo). Il palazzo venne completato più tardi dal Fontana ma le ali ed il disegno tripartito sono del Bernini poiché il Fontana non aggiunse di suo nulla che il portale e la torre campanaria. Nel trattamento dei particolari plastici si evidenzia l’ispirazione naturalistica; le mostre delle finestre e i piastroni che rafforzano gli spigoli delle ali, appaiono come scolpiti, anzi sbozzati rapidamente, nella roccia viva e negli interstizi si annidano scherzosamente elementi vegetali.

1655 Avvento di Alessandro VII che chiese a Bernini la collaborazione più completa. La collaborazione tra architetto e committente è fondamentale per comprendere appieno la genesi delle opere che derivarono. I primi incarichi a lui affidati furono la trasformazione della porta del popolo e il restauro della chiesa di Santa Maria del Popolo. Nella chiesa il compito non era facile in quanto si trattava di agire su una precedente struttura quattrocentesca dotato di definita autonomia. Qui Bernini intervenne radicalmente aggiungendo pesanti cornici inflesse e figure appoggiate sopra ciascuno degli archi della navata.

1656 Studi per piazza San Pietro. Impose una chiara struttura geometrica basata su rapporti semplici.

1664-66 Scala Regia. Qui sembra rivolgersi con interesse verso le conquiste del linguaggio Borrominiano. Molti dei motivi decorativi e la stessa esaltazione dell’intonaco bianco, volta ad effetti luministici mostrano chiaramente l’influenza del suo rivale. La scala ha un effetto di continuo movimento.

1658-1661 Chiesa di Castel Gandolfo. Pianta a croce greca

Sant’Andrea al Quirinale perfeziona la pianta ellittica di Propaganda Fide . Emerge la plasticità del santo al di sopra del timpano della cappella maggiore dividendo chiaramente lo spazio liturgico “eletto” dallo spazio riservato ai fedeli. Il richiamo al Pantheon ed alla classicità che rappresenta è più forte che in opere precedenti creando la base grammaticale per il nuovo linguaggio barocco. Ma al contrario della discrezione classica della fonte di ispirazione qui la decorazione con tutta la sua forza assume carattere prevalente, Classicismo base per un nuovo lessico.
Evidenza della forte cornice orizzontale e del disegno sulla cupola della lanterna. Esplosivo intreccio delle costole e dei cassettoni esagonali in alto e, in basso le vibrazioni coloristiche delle membrature del marmo rosa.
All’esterno si ritrova la stessa vicenda: tra protiro e finestra semicircolare si stabilisce lo stesso rapporto come se la sporgenza derivasse dal ribaltamento di un diaframma piano dela stessa forma del finestrone.

1662-1664 Chiesa dell’Assunta ad Ariccia, di fronte alla residenza dei Chigi. Il riferimento al Pantheon anche qui è determinante; le due ali ampliano la visione, danno un più ampio respiro, articolate su un ordine di robusti pilastri, richiamano il colonnato di san Pietro. Debole è l’aggancio del portico con la rotonda. All’interno, al piano limite della cappella si sostituisce un affresco che occupa tutta la piccola abside suggerendo a conclusione dell’architettura lo spazio illusionistico della pittura.

Ricca di risultati è la sua attività urbanistica sotto il pontificato di Alessandro VII.

1664 Palazzo Chigi in piazza Santi Apostoli. Facciata tripartita e ordine centrale a pilastri innalzato su alto basamento.

Tornato a Roma da Parigi, lavora per la terza grande opera compiuta per la basilica vaticana:
la Cattedra di san Pietro, gigantesco gruppo plastico in cui la luce, come già l’acqua nelle sue fontane, non gioca più un ruolo complementare, ma diventa essa stessa materiale da costruzione in virtù dell’inserimento del “trasparente” della gloria. Dai disegni emerge come fosse ben presente l’effetto della Cattedra nella visione dinamica come sfondo al Baldacchino.

L’architettura del Bernini ebbe presso i contemporanei, un prestigio paragonabile a quello della sua scultura. Tuttavia il suo ruolo nella creazione del nuovo linguaggio architettonico è circoscritto e non paragonabile a quello del Borromini.

BORROMINI
Nasce nel 1599 a Bissone, presso Lugano nel Canton Ticino. Si chiama Francesco Castelli ma quando giunge a Roma, è talmente posseduto dalla devozione di uno dei più grandi Santi del tempo, Carlo Borromeo, che cambia il suo cognome e si fa chiamare Francesco Bromino, diventato poi Francesco Borromino, e infine Francesco Borromini.
San Carlo Borromeo aveva avuto con la sua azione un impatto stravolgente sull’animo dei contemporanei; di nobilissima famiglia, i Borromeo erano incredibilmente ricchi con grandi proprietà le cui risorse venivano, in parte, date ai poveri.
San Carlo Borromeo sarà molto attivo durante la terribile peste; con la veste rotta e con un cappio da condannato intorno al collo per dimostrarsi schiavo di Nostro Signore, girerà tra la folla dei disperati a dare conforto e aiuto.
Borromini discende da una famiglia di capomastri e scalpellini e, ancora ragazzo, fu mandato dal padre a Milano a fare lo scalpellino e ad apprendere i segreti dell’arte.

Di sua volontà lascia Bissone alla volta di Milano a piedi, con una veste povera, una bisaccia e del pane secco per godere di un cammino iniziatico verso una delle chiese più celebri della cristianità dove lavora con straordinaria abilità alle grandi impalcature del Duomo, poi, sempre a piedi, vuole visitare le splendide chiese di Ravenna che, con il loro sapore arcaico e orientale insieme, lo soggiogano e lo dominano; lì scopre simboli inquietanti che non aveva mai visto.

Infine è la volta di Roma dove Borromini è giunto come pensionante presso Leone Garopo, suo cugino e soprattutto amico intimo di Bernini, quel ragazzo prodigio dall’eccezionale capacità di scolpire il movimento, già agli alti vertici della notorietà, amato e idolatrato da Roma intera con il quale Borromini, già da tempo, ambisce entrare in contatto.
Leone Garopo non è un uomo gradevole, è il capomastro di San Pietro e non perde occasione per dire a Borromini che Bernini è il più grande e in un continuo ripetere: " Fai come lui, segui lui, scolpisci come lui…" e Borromini che vorrebbe essere amico di Bernini in realtà viene continuamente stuzzicato tanto da non riuscire a stabilire con lui quell’approccio tanto sperato.
Quando Leone Garopo muore, cadendo da un’impalcatura, il Borromini si affida ad un grande ed anziano maestro Carlo Maderno nato anche lui in Canton Ticino, suo conterraneo e lontano parente.
Lavora dapprima come umile scalpellino al cupolino di Sant’Andrea della Valle (1621-23) e alla fabbrica di San Pietro (1624-30) dove ottiene il riconoscimento di "Maestro" poi, a livello di collaborazione con Maderno e con Bernini a Palazzo Barberini dove costruirà la prestigiosa scala ellittica ed effettuerà interventi nella facciata posteriore.

Dopo la morte di Carlo Maderno avvenuta nel 1629, Borromini continuerà a lavorare in San Pietro alle dipendenze di Bernini per il quale ha predisposto la copertura superiore del famoso baldacchino di bronzo con le volte a dorso di delfino, stondate, che si congiungono ai quattro lati; opera questa che andrà a sostituire il progetto di Bernini che, invece, aveva previsto una copertura con quattro archetti e l’immagine del Redentore: una struttura piuttosto contenuta rispetto all’opera complessiva.

Il contrasto tra i due artisti si fa sempre più aperto fino a quando Borromini, finalmente liberato dalla tirannide di Bernini, nel 1634, riesce ad avere un’attività sua autonoma con la costruzione del convento e della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane (la facciata della Chiesa, del 1667, sarà l’ultimo suo lavoro).
Nella Chiesa di San Carlino si assiste alla perfetta conclusione della ricerca borrominiana nella quale la contrapposizione del concavo e del convesso si alternano in un’ondulazione ininterrotta, che investe tutta la superficie muraria. Borromini non vide l’opera compiuta; si uccise gettandosi sulla sua spada.
La sua architettura aspramente censurata dalla critica neoclassica è nei suoi caratteri formali, opposta a quella di Bernini, infatti, al contrario di quest’ultimo,
Borromini cerca una contrazione dello spazio costruttivo, riduce al minimo il valore della masse ed esaspera quello delle linee, introduce forme nuove come volute, arabeschi, cartocci, ….ma, soprattutto più che alla maestà e alla monumentalità dell’insieme, mira ad ottenere una serrata continuità di ritmo.
Nel 1640 Virgilio Spada, elemosiniere di Innocenzo X, prima, e di Alessandro VII, poi, - legato a Borromini dalla passione delle scienze occulte, esoteriche, magiche – presenta all’amico Francesco, Orazio Falconieri, che gli affida la commessa di trasformare il vecchio palazzetto comprato dai Duchi di Latera in un palazzo più importante e adatto alla personalità della famiglia Falconieri.
I soffitti del Palazzo per eleganza e purezza di linee saranno la nota dominante degli interni borrominiani.
Borromini al pari di Bernini amava i capricci, più di lui sapeva trasformare l’impossibile in realtà di marmo e di pietra ma la sua vera opera sarà quella - quando finalmente liberato dalla tirannide di Bernini - di riuscire ad avere l’incarico della chiesa prima di S.Carlino, poi di S. Ivo alla Sapienza.
Nel 1642 cominciano i lavori della Chiesa di S. Ivo alla Sapienza, (l’incarico fu attribuito a Borromini per intercessione di Bernini che voleva allontanarselo perché stava diventando troppo importante); l’opera è considerata la più audace dell’artista contenendo all’interno: la complessa pianta a stella, la ricerca di intricate forme geometriche, le vele della cupola; all’esterno: la spirale del lanternino quale simbolo dell’ascesa alla Sapienza.
Virgilio Spada, nella sua qualità di elemosiniere del Papa, aveva un grande ascendente sul Pontefice e sottoponendo al Papa lo scritto sui danni cagionati alla basilica di San Pietro, dalla torre campanaria del Bernini ne aggravò l’umiliazione.
Era il giorno di Natale del 1646; di prima mattina doveva essere abbattuto, per il cedimento del terreno, lo splendido campanile progettato e realizzato da Gian Lorenzo Bernini.
Il campanile pendeva verso sud e minacciava la facciata di San Pietro.
Alle operazioni era presente tutta la Roma che contava, e naturalmente il Papa Innocenzo X, Virgilio Spada in qualità di Soprintendente della Fabbrica di San Pietro e protettore di Francesco Borromini, Bernini con il viso sporco di polvere e bagnato di lacrime e Borromini che assisteva alla mortificazione del rivale come ricompensa ai torti subiti in una competizione senza fine, in una sfida infinita che la stessa società dell’epoca voleva, con quel gusto dolce e amaro, di mettere di fronte due grandissime figure del barocco romano a contendersi una disputa artistica intessuta da rivendicazioni personali.
Il cammino di Bernini è basato sulla fantasia più eccessiva, quello di Borromini è in base ad una saggezza criptica addirittura fondata sul libro di un celeberrimo gesuita: Attanasio Kircher studioso di egittologia, etruscologia, matematica applicata, fisica ,cibernetica.
Attanasio Kircher era amico di Borromini e gli da i consigli fondamentali per creare il lanternino della cupola di S.Ivo alla Sapienza ispirato ad una conchiglia che lui aveva portato dai mari tropicali; è una conchiglia tutta attorta che ha un piede lunghissimo.
Bernini l’aveva vista nello studio di Borromini e ne celiava; Borromini la utilizzò al contrario come modello di un cammino che si ripete su se stesso e si attorce illuminato dai fari della sapienza verso l’impossibile e non sempre comprensibile grandezza divina.
Borromini è una miniera folle di sapienza massonica, misteriosa e mistica, soprattutto legata ai testi di Kircher.
Sempre nel 1646 Borromini inizia i lavori di restauro di San Giovanni in Laterano che durarono per tre anni e proprio quando il lavoro si faceva più febbrile per l’imminente apertura della Porta Santa per il Giubileo del 1650, il 5 dicembre del 1649 alte grida risuonarono all’interno della Basilica; un certo Marco Antonio Bussone, armato di una grossa pietra, si era scagliato sulle decorazioni della Basilica arrecandone seri danni.
Fermato dagli operai, fu da questi picchiato finché, accasciato al suolo, non si mosse più. Alle indagini del Bargello risultò che il Bussone fu ucciso a bastonate ma una lettera autografa di Borromini diretta al Papa Innocenzo X Pamphili testimoniava la sua colpa per aver ordinato agli operai: "…dategli una lezione. Non pensavo affatto che sarebbe morto. Un pugno al mento o forse alla gola ha provocato le conseguenze che certo non volevo. Comunque io discolpo i miei operai e chiedo alla Santità Vostra di considerare come attenuanti i miei meriti e la mia integrità", ed ancora a sua discolpa: "Il Bussone è stato mandato per distruggere il mio lavoro e farmi perdere la stima e la benevolenza vostra".
Borromini viene condannato all’esilio ma tale punizione non durerà molto perché la sentenza verrà revocata; il Bargello di Roma non scoprirà mai chi aveva mandato il Bussone a deturpare le decorazioni di Borromini.
Nel 1653 Borromini lavora alla chiesa di S. Agnese in Agone, il Papa gli ha chiesto il progetto per una spettacolare cappella privata, appunto la chiesa di S.Agnese in Agone sita a Piazza Navona che allora non era una Piazza aperta al pubblico ma era la piazza privata del Papa; il Papa è Innocenzo X un uomo che gestisce con intelligenza ma anche con forza e brutalità il potere e la cosa religiosa; è un uomo controverso, dalla barba caprina, dai lineamenti duri, un uomo che non si lava, ha sempre la veste sporca ," …mai si vide più orribile omo…" scrivono gli storici ma gestisce con tale autorità il potere da soddisfare ogni suo desiderio come quello di ordinare di prendere una colonna della antica basilica costantiniana di S. Pietro e di farla tagliare a metà per avere due paracarri, ancora oggi posti davanti al Palazzo Pamphili.
La facciata della chiesa era stata costruita da Carlo e Girolamo Rainaldi ma era banale, Borromini la cambia completamente e inventa una chiesa che sembra accogliere i fedeli a braccia aperte, è una chiesa nuova, umana, calda, cordiale che lo stesso Bernini, nonostante la conclamata rivalità, ammira e ne rimane talmente colpito da utilizzare molte delle idee per le sue opere.
Borromini era stato talmente geniale nel creare alternanze di concavo e convesso e lo spunto lo aveva preso da un’elaborazione greca dell’anima del mondo dove ciò che è
concavo e convesso sembra dilatarsi in un torace che respira; dove ciò che si contrae e si allarga, a mezzo del fiato divino che pervade ogni cosa, delimita l’anima del mondo.
Borromini si sente illuminato da un bisogno ossessivo di perfezione, misantropo, vive praticamente solo in Vicolo dell’Angelo in compagnia solo di libri, ha un carattere chiuso, non ha amici e non sa creare attorno a se quell’atmosfera cordiale e di complice collaborazione neanche con i suoi operai; i maestri carpentieri sono scontenti di lui, è troppo severo con tutti e non parla abbastanza.
La Chiesa viene criticata e Borromini subisce l’accusa: "Intimiamo al Signor Francesco Borromini architetto, … che si vocifera … la fabbrica di S. Agnese a causa del grande peso imposto sopra possa resistere a lungo…. di garantire per quindici anni la stabilità".
La risposta di Borromini fu secca; venne estromesso dal lavoro, il disegno fu parzialmente cambiato e la motivazione fu: "…per forti divergenze con il Principe Pamphili".
Un insuccesso umiliante per la sensibile e complessa personalità di Borromini che qualche anno prima aveva già provato quando gli era stato affidato l’incarico di sistemare Piazza Navona con una splendida fontana.
Il progetto non era piaciuto al Papa che lo giudicò troppo banale, troppo modesto e non in sintonia con la nuova Roma e l’iniziativa passò a Bernini.
Comincia così una forte crisi che si aggraverà negli anni successivi; l’incompiutezza o il mancato compimento di molti suoi lavori sono tragedie per Borromini, nonostante la realizzazione del monumentale Palazzo di Propaganda Fide che Bernini aveva avviato.
Sullo spigolo del Palazzo di Propaganda Fide Borromini applicò lo stemma del nuovo Papa Alessandro VII e lo circondò di un ornamento in cui spiccavano due belle orecchie d’asino: un dispetto a Bernini che abitava di fronte? La risposta fu pronta: nella mensola che reggeva il balcone di casa sua Bernini scolpì il simbolo della virilità contro il rivale e, Giuseppe Antonio Guattani, nei suoi
Monumenti inediti del 1787dice:"tale inonesta decorazione la crediamo ivi posta per mostra di disprezzo e per incutere così avvilimento nel competitore".
La casa di Bernini in Via della Mercede, n. 12, esiste ancora, non così lo sfregio, da tempo cancellato come pure le orecchie d’asino.
Borromini è stanco ma è riuscito ad avere un dialogo cordiale con i Padri Filippini e per loro ha fatto l’Oratorio dei Filippini a Santa Maria in Vallicella e ha utilizzato le teorie di Padre Attanasio Kircher per far sì che chiunque parli o canti a voce bassissima, in un angolo della biblioteca, si senta perfettamente.
E’ un momento di grazia che si risolve con la realizzazione conclusiva di San Carlino alle quattro fontane. Ormai è un uomo provato dalla vita, ha 68 anni, è stanco; la storia afferma che il 2 agosto del 1667, si lancia sulla sua spada e muore il giorno successivo, dopo una lunga agonia; è molto probabile, invece, che si sia fatto aiutare da un suo allievo.
Della sua morte, Bernini, non gioirà perché aveva sempre riconosciuto la grandezza di Borromini; lo aveva sempre apprezzato e temuto nello stesso tempo;aveva invidiato quello che lui aveva creato ma soprattutto gli aveva riconosciuto di non essersi mai inginocchiato davanti a nessuno.
Borromini non ebbe tutto quello che aveva avuto Bernini, ma Bernini non provò mai la immensa gioia che invece ebbe Borromini quando, ancora giovane scalpellino, venne chiamato a San Pietro per creare il basamento dell’opera più bella del mondo : la Pietà di Michelangelo.
Borromini lavorerà con amore a quel basamento di marmo listato; avrebbe potuto farlo con marmi spettacolari, gli era stata data tutta la possibilità, ma lo fece con un marmo chiaro appena venato di nero per non distogliere lo sguardo dallo splendore di quella scultura.
A sessantotto anni lascia la vita ed entra nella storia.
 
I SUOI MAGGIORI CAPOLAVORI
1621-23 Cupolino di Sant’Andrea della Valle a Roma
1624-30 Palazzo Barberini a Roma – Scala ellittica e interventi nella facciata posteriore
1629 Morte del Maderno
1629 Copertura superiore del Baldacchino di San Pietro in Vaticano
1634-67 Convento e Chiesa di San Carlo alle quattro fontane a Roma
1635-50 Trasformazione di Palazzo Carpegna oggi Accademia di San Luca a Roma
1636 Cappella di Santa Lucia in Selci a Roma
1637-50 Convento e Oratorio dei Filippini a Roma
1640 Trasformazione di Palazzo Spada a Roma
1639-41 Trasformazione di Palazzo Falconieri a Roma
1640-42 Altare dell’Annunziata nella Chiesa dei SS.Apostoli di Napoli
1642 Trasformazione della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma
1642 Trasformazione della Chiesa di Santa Maria dei sette dolori a Roma
1644 Tomba Merlini in Santa Maria Maggiore a Roma
1645-50 Trasformazione Palazzo Pamphili a Roma
1646-49 Restauro di San Giovanni in Laterano a Roma
1647-66 Chiesa e Collegio di Propaganda Fide in Roma, Cappella dei re Magi
1650 Ampliamento del Borgo di San Martino al Cimino
1653-57 Rifacimento di Sant’Agnese in Agone a Roma
1653 Cupola e campanile della Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte a Roma
1662 Cappella Spada nella Chiesa di San Girolamo alla Carità a Roma

Giovinezza e formazione
"Uomo di grande e bello aspetto, di grosse e robuste membra, di forte animo e d'alti e nobili concetti" (secondo il suo biografo Filippo Baldinucci), Francesco Borromini nacque il 27 settembre 1599 a Bissone, sul lago di Lugano da Giovanni Domenico Castelli e da Anastasia Gravo. 
Il cognome Borromini (Bromino, Borromino), adottato all'inizio della sua carriera da Francesco, probabilmente per distinguersi dai molti Castelli presenti tra le maestranze edili, deriva da Giovanni Pietro "Brumino" che aveva sposato in seconde nozze la nonna paterna (da cui anche il padre era spesso detto "Bormino").
 Seguendo la tradizione migratoria delle maestranze della propria terra specializzate nell'arte lapicida, Francesco si spostò a Milano in età molto giovane, tra i nove e i quindici anni secondo Baldinucci. A Milano lavorò come intagliatore di pietre e presumibilmente studiò l'arte del disegno di scultura, avendo modo di impiegarsi anche nella Fabbrica del Duomo.
Inevitabilmente il suo approccio con l'architettura lombarda fu mediato dalla secolare tradizione costruttiva e linguistica rappresentata dalla grande Fabbrica nella quale si rispecchiava l'evoluzione dell'architettura lombarda dalla sua solida stratificazione romanica, agli sviluppi gotici, all'influenza "romana" del tardo cinquecento, fino al revival gotico del primo seicento. Tale contaminazione di linguaggi, riscontrabile anche in singoli suggestivi episodi monumentali, riverberò stimoli creativi sulla formazione di Borromini, già connotata da una chiara accezione empirica e da pragmatiche cognizioni tecniche.

L'arrivo a Roma e i primi lavori
Le prime testimonianze note della presenza a Roma di Francesco lo vedono impegnato nel 1619, con il doppio cognome Castelli "Bromino" in lavori per la basilica di San Pietro in Vaticano come scalpellino, ospite e collaboratore dello zio Leone Gravo, abitante nel vicolo dell'Agnello presso San Giovanni dei Fiorentini. Gravo, già attivo come capomastro scalpellino a Milano, dove aveva svolto un ruolo importante nella prima formazione di Borromini, occupava una posizione di un certo peso nella gerarchia delle maestranze romane, soprattutto da quando era entrato in parentela con Carlo Maderno, il celebre architetto dell'ampliamento della basilica di San Pietro, sposandone la nipote Cecilia nel 1610.
Fu attraverso Gravo che Borromini entrò in contatto con Maderno, colui che per un giovane aspirante architetto rappresentava il maggior referente nel mondo dell'architettura romana al tempo di Paolo V Borghese. Cosicché quando, il capomastro morì cadendo dalle impalcature di San Pietro il 12 agosto 1620, Borromini, seppure in un ruolo sostanzialmente esecutivo, doveva già collaborare con il maestro. Non è infatti un caso che, il 2 novembre 1621, proprio nella residenza di Maderno, Borromini e altri due capomastri scalpellini provenienti dalla diocesi di Como costituissero una società di mestiere rilevando i materiali del defunto parente.

Il rapporto con Carlo Maderno.
Nella nuova veste di imprenditore la carriera di Borromini proseguì sotto la protezione dell'illustre architetto conterraneo e parente acquisito. Il contatto con Maderno e con le innumerevoli occasioni di apprendimento rappresentate dalle sue opere accentuarono certamente la determinazione del giovane ad abbracciare la professione di architetto alimentandone l'innata creatività già temprata dall'esperienza milanese. Il fatto che anche il maestro avesse sperimentato in gioventù una simile parabola formativa presso lo zio Domenico Fontana, favorì certamente da parte di Borromini l'armonica fusione tra le acquisizioni della cultura lombarda e le conoscenze derivanti dallo studio diretto dei monumenti della Roma antica e moderna, tra cui in particolare il Pantheon, i monumenti della Villa Adriana e le opere di Michelangelo, che assieme alla tradizione gotica e ai disegni delle antichità, circolanti al tempo, avrebbero costituito i suoi riferimenti ideali. La grande cultura architettonica di Maderno e la percezione del suo fondamentale contributo nel passaggio dalla tradizione tardo cinquecentesca a un linguaggio più innovativo sul piano della visione organica tra l'impianto planimetrico e il suo sviluppo spaziale, indirizzarono Borromini verso un'interpretazione sempre più critica e originale del processo ideativo, man mano che il suo ruolo presso lo studio del maestro evolveva da quello di mero esecutore di disegni, a quello di disegnatore e quindi a quello di collaboratore effettivo che rivestiva al momento della morte del maestro nel 1629. 
Il rapporto di Borromini con Maderno in questi anni resta uno dei punti da sciogliere per quanto riguarda la definizione della sua maturità creativa e quindi della misura del suo apporto nell'ultima produzione del maestro, per quanto recentemente si tenda ad attribuire all'influenza del giovane allievo l'inedita fluidità di alcune soluzioni presenti in suoi disegni finora considerati derivanti da idee del Maderno. 
Queste caratteristiche proprie di un giovane architetto si possono riscontrare nella sua attività presso il cantiere maderniano di Sant'Andrea della Valle, nel 1621; seppure le prime testimonianze documentarie finora note si riferiscano alla sua presenza nel cantiere di San Pietro, nel 1619, in ruoli di semplice scalpellino apparentemente non corrispondenti alla sua principale qualifica di disegnatore-scultore-intagliatore di marmi. Infatti sia il suo notevole apporto alla decorazione del lanternino della cupola di Sant'Andrea della Valle, sia l'influenza da lui esercitata nel disegno della decorazione di alcune parti interne e, secondo studi recenti, sul progetto per la facciata elaborato in più versioni da Maderno, riflettono una personale inventiva consona tanto alla rivalutazione critica in atto del suo apprendistato milanese, quanto agli sviluppi della carriera negli anni successivi al servizio di Maderno nel duplice ruolo di elaboratore di disegni e di capomastro scalpellino. Con queste mansioni Borromini appare nei cantieri maderniani per lavori nel Palazzo del Monte di Pietà, dal 1623, e per il restauro del portico del Pantheon, eseguendo, tra l'altro, i disegni dei rispettivi campanili, nel 1624 e nel 1626. 
Al ruolo di scultore-intagliatore di marmi si riferiscono più specificatamente i molteplici lavori svolti da Borromini all'interno della basilica di San Pietro tra il 1624 e il 1629, sempre sotto l'egida di Maderno, tra i quali si possono segnalare quelli per la cappella provvisoria del Volto Santo (1624) e per la cappella del Coro: ornati della porta dell'organo vecchio (1625), piedistallo della Pietà di Michelangelo (1626), esecuzione del disegno e partecipazione alla realizzazione della cancellata bronzea verso la navata sinistra (1628-1629). Egli fu attivo anche nelle cappelle del Crocefisso, della presentazione della Vergine e del Battesimo collocate nel corpo longitudinale della basilica; alla cappella del Crocefisso, la prima della navata destra oggi dedicata alla Pietà, era destinato il progetto di Maderno del 1623 per la Porta Santa, per la cui decorazione Borromini ebbe un ruolo notevole, come per il progetto di sistemazione della Navicella di Giotto nel lunettone della parete d'ingresso della navata centrale. Sotto la direzione di Maderno egli fu impegnato anche in molti lavori nel palazzo del Quirinale di cui esistono pagamenti a partire dal 1626.

Attività tra Maderno e Bernini

Nel grande
cantiere di Palazzo Barberini, destinato da Urbano VIII a residenza dei propri nipoti Francesco e Taddeo, l'apporto di Borromini non è facilmente distinguibile nell'ambito della situazione, ancora poco chiara, dei diversi architetti che, a vario livello, si succedettero nella progettazione e nella conduzione dei lavori, oltre al Maderno, al quale è da attribuire il progetto iniziale, e a Gian Lorenzo Bernini, responsabile della prosecuzione e del completamento della fabbrica, nonché della modifica del progetto maderniano. La testimonianza di Bernardo Castelli, nipote di Borromini (una lunga nota biografica scritta per la "Vita" di Baldinucci), secondo il quale lo zio "faceva tutti i disegni di detta fabbrica" e Maderno "lasciò tutta la cura del detto palazzo et delli altri lavori di San Pietro al Borromino", seppure da un punto di vista molto parziale, tende ad accreditare un ruolo maggiore di quello generalmente attribuitogli (scala a chiocciola ai lati della facciata verso il giardino, le porte del salone e alcune finestre). Tale ruolo comunque dovette riguardare la definizione finale dei progetti, in particolare per quanto riguarda il disegno della facciata principale, anche se la fabbrica del palazzo fu condotta quasi interamente sotto la piena responsabilità di Bernini.
I cantieri della basilica di San Pietro e del Palazzo Barberini dove, oltre che nei Palazzi del Quirinale e del Vaticano, il giovane Borromini si trovò a lavorare alle dipendenze di Bernini, già artista celebrato, nonostante fosse di un solo anno più anziano, furono occasioni di un confronto determinante per gli sviluppi del forte dualismo che connotò la successiva produzione architettonica di entrambi e consentirono a Borromini di misurare finalmente il grado della sua maturità artistica e soprattutto di inquadrare meglio la propria personalità di architetto nel generale contesto romano.
La disinvolta genialità di Bernini espressa nella scultura e nella pittura, prima ancora che nell'architettura, in un concetto unitario delle arti visive, ne faceva un protagonista della corte opulenta di Urbano VIII Barberini, al quale era legato da affinità elettive.
L'ostinata ricerca formale nell'architettura ancora inespressa su grandi scenari e un carattere meditativo indirizzava decisamente Borromini verso ribalte più dimesse.
Sul piano caratteriale sono molti gli episodi che testimoniano l'esuberanza del giovane Bernini rivolta a una visione edonistica della vita, mentre altrettanto nota è la
propensione di Borromini alla solitudine e alla morigeratezza dei costumi, riflessa perfino nell'abbigliamento all'antica di foggia spagnola perennemente nero (secondo il biografo Giambattista Passeri) e sperimentata nella modestia del vivere quotidiano della lunga coabitazione con la famiglia dell'ottonaio Evangelista Aristotile in una casa presso San Giovanni dei Fiorentini.
 Già alla metà degli anni Venti, Borromini era decisamente indirizzato verso una concezione aulica della professione di architetto, mediante la progressiva acquisizione di una grande cultura teorica, tanto da permettersi, anche dopo la morte di Maderno di eludere le mansioni secondarie della professione che vedevano impegnati molti architetti coetanei, grazie probabilmente a una certa indipendenza economica derivante dai proventi della sua attività imprenditoriale.
 Questa maturità creativa doveva essere ben conosciuta dal Bernini che, secondo la sua ben nota abilità nella gestione degli aiuti, pensò di avvalersi stabilmente di lui proseguendo il rapporto di collaborazione sia nei lavori di Palazzo Barberini, sia in quelli della basilica di San Pietro di cui aveva assunto la direzione nel febbraio 1629, succedendo a Maderno come architetto della Fabbrica.
Già nel 1624 Bernini era stato incaricato della realizzazione del baldacchino, a dispetto di Maderno, suscitando nel vecchio maestro forti sentimenti di umiliazione e risentimento, che presumibilmente influenzarono anche l'iniziale collaborazione di Borromini con lo scultore, insieme alla rigida subordinazione da lui impostagli.
La presenza di Borromini nei lavori per il baldacchino, documentata dal 1627 in aspetti esecutivi, riguardò il contributo alla definizione di alcuni aspetti decorativi soprattutto dei capitelli e della trabeazione del coronamento. Il contatto con Bernini contribuì alla maturazione del linguaggio plastico di Borromini apprezzabile nelle altre sue opere all'interno della basilica vaticana ascrivibili alla direzione dello scultore, come l'inferriata della cappella del Sacramento (1629-1630) e le decorazioni dell'altare di San Leone Magno. Influenze berniniane, d'altra parte, sono riscontrabili anche nella fontana delle Api in Vaticano, posta presso l'attuale ingresso di Sant'Anna, realizzata da Borromini nel 1625-1626, quando il ruolo di Bernini come regista del gusto del papato di Urbano VIII era già dominante.
Borromini, pur di essere attivo in opere di primo piano come quelle del Vaticano e di Palazzo Barberini, sopportava una condizione subalterna di fatto, non corrispondente al suo effettivo ruolo e alle conseguenti retribuzioni. In questo quadro si colloca il manoscritto di Bernardo Castelli secondo la quale Bernini "
se lo attirò con grandi promesse et per l'architettura lasciava fare tutte le fatiche al Boromino" ma "tirate che furono le fabbriche di quel pontificato il Bernini tirò li stipendi et salarii tanto della fabbrica di San Pietro come del Palazzo Barberini et anche li denari delle misure e mai diede cosa alcuna per le fatiche di tanti anni al Boromino ma solamente bone parole". Quanto ciò fosse vicino al vero è attestato dal pagamento di 25 scudi pagati a Borromini come "aiutante dell'architetto" per i lavori in Palazzo Barberini "per intero pagamento di quanto possa pretendere per diversi disegni e modelli fatti da lui per servizio di detta fabbrica"; quando sappiamo che Bernini percepiva quasi la stessa somma per una sola mensilità del suo stipendio di architetto della Fabbrica di San Pietro.
La rottura dei rapporti tra i due risale ai primi del 1633, quando il baldacchino di San Pietro appariva già ultimato, è perciò presumibile che le ragioni risiedessero soprattutto nella vicenda progettuale di Palazzo Barberini, rispetto alla quale, sempre secondo Bernardo Castelli, Borromini soleva dire: "
Non mi dispiacie che abbia auto li denarij, ma mi dispiacie che gode l'onor delle mie fatiche" chiarendo le origini del risentimento che provò in seguito per Bernini.

Prima attività autonoma
Una importante testimonianza del ruolo di Borromini in palazzo Barberini è quella dello stesso cardinale Francesco raccolta nel 1657 da mons. Virgilio Spada, personaggio che rincontreremo spesso in seguito: "L'emminentissimo Barberino mi disse pochi giorni sono che la fabrica Barberina alle 4 Fontane fù in gran parte disegno del Borromino, e me l'haveva detto anche l'istesso Borromini mà gli l'havevo finto di credere". L'atteggiamento benevolo di Francesco Barberini verso Borromini è dimostrato anche dal fatto che nel 1632 - quando i rapporti con Bernini dovevano essere già alterati - egli lo raccomandò come architetto della Sapienza, lo "Studium Urbis", incarico che come vedremo produrrà una importante opera.
Contemporaneamente Borromini, desideroso di applicarsi in prima persona nella progettazione arrivava ad offrire gratuitamente le proprie prestazioni, come ad esempio fece nel1633 con il nuovo Sodalizio dei Piceni, protetto dal cardinale Antonio Barberini Junior, ottenendone l'assenso a occuparsi della chiesa della Santa Casa di Loreto, senza rilevanti esiti costruttivi.
Nello stesso anno, finalmente, i Trinitari Scalzi, ancora una volta con
l'intermediazione del cardinale Francesco Barberini, attratti anch'essi dalla gratuità del suo ingaggio, gli affidarono l'incarico di realizzare la chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane e l'annesso convento. In questo cantiere che nella prima fase, dal 1634 al 1641 non riguardò la facciata della chiesa, (lavori minori sono documentati ancora nel 1648), Borromini ebbe modo di esprimere tutta la propria personalità artistica unita ad una straordinaria capacità di controllo di tutte le fasi operative. Quest'ultimo aspetto risalta nell'entusiastica cronaca dei lavori fatta dal trinitario fra' Juan de San Bonaventura: "quel lavoro che doveva portare molte giornate le fa venire così facili anco che sia difficilissimo (…) perché detto sig. Francesco, lui medesimo governa al muratori la cuciara, driza el stuchator il cuciarino, al falegname la sega, et 'l scalpello al scarpellino, al matonator la martinella et al ferraro la lima, di modo che il valor delle sue fabriche è grande ma non la spesa come censura suoi emuli". Alla tradizionale interpretazione di questo brano come espressione del grande pragmatismo di Borromini, si affiancano le risultanze di un recente rilievo dell'opera che attestano l'adozione di inedite soluzioni costruttive, da cui si deduce la necessità di una presenza costante sul cantiere non essendo queste trasmissibili attraverso i soli disegni. Naturalmente questo comportamento era influenzato dall'ansia dell'architetto di esprimersi anche in un'opera di piccole dimensioni condotta con risparmio di materiali. Ma l'esito formale straordinario non sfuggi ai contemporanei, stupiti e ammirati dalla vibrante plasticità dello spazio sorto dalla progressiva articolazione della forma base rettangolare, in un ottagono e quindi in una combinazione di pianta ellittica e a croce, mentre la continua fluidità delle membrature e della volta ovale restituiva un ambiente raccolto impreziosito dall'uniforme luminosità del bianco, che rifletteva anche un articolato significato simbolico riferito al mistero trinitario, particolarmente nella declinazioni di schemi triangolari in pianta e in alzato.
 "Non essendo mai raccomandato di Cardinale né principe alcuno, ma sì delle sue attioni et fatiche" (Juan de San Bonaventura)
Borromini si guadagnò la seconda grande commessa partecipando a una consulta di architetti (più tardi spacciata da lui stesso, come concorso pubblico fra tutti gli architetti italiani) indetta nel 1636 dai padri Filippini per la definizione del complesso edilizio a fianco della chiesa di Santa Maria in Vallicella, già oggetto di un progetto, ritenuto insoddisfacente, di Paolo Maruscelli, architetto della Congregazione. L'incarico conferito ufficialmente a Borromini l'11 maggio 1637, prevedeva anche la facoltà da parte di Maruscelli di poter scegliere se affiancare Borromini o lasciare a lui solo la direzione del cantiere, cosa che in effetti avvenne. Comunque Borromini già alla fine del 1636 era attivo per i Filippini nell'esecuzione di "disegni e modelli" per la cappella di San Filippo Neri nella Sagrestia di Santa Maria in Vallicella, e in particolare nel progetto dell'altare maggiore. Il progetto rivoluzionario del nuovo Oratorio, la cui costruzione era stata deliberata nel gennaio 1637, e la sua esecuzione sottoposta ad un estenuante controllo da parte dei committenti, videro uno strenuo estimatore e difensore nel padre Virgilio Spada, dilettante di architettura e priore della Congregazione, che nonostante alcune modifiche garantì il rispetto sostanziale del progetto e che da allora fu il suo più grande sostenitore, consigliere e amico. Fu proprio Spada a comporre nel 1646-47 un testo intitolato "Piena Relatione" (poi come vedremo utilizzato da Sebastiano Giannini nell' "Opus Architectonicum") nel quale si descrivono analiticamente le fasi progettuali e costruttive del complesso, fornendo un eccezionale documentazione sul processo creativo e sul metodo di lavoro di Borromini. Quest'ultimo, nel 1651, per le ennesime intromissioni dei Filippini nella gestione del cantiere, lo abbandonò polemicamente, venendo poi sostituito da Camillo Arcucci, che intorno al 1665 concluse la fabbrica apportandovi alcune alterazioni.
 Nonostante le modifiche imposte dalla committenza, il carattere dell'opera borrominiana riflette pienamente gli intenti dell'autore, in primo luogo, come affermato nella "Piena Relatione", quello di
abbracciare "ogn'uno che entri" attraverso la concavità della facciata che, nonostante la complessa articolazione plastica, riesce a rimanere subordinata gerarchicamente a quella in travertino della chiesa contigua, grazie anche al sobrio rivestimento in laterizio e all'impiego di alcuni elementi tipici dell'edilizia civile, pur in un contesto che rimanda continuamente ad etimi michelangioleschi, filtrati dal Maderno.
All'eredità del Maderno può essere ricondotta l'attività di Borromini per le monache di Santa Lucia in Selci: nella chiesa, con la decorazione della Cappella della Trinità, l'altare maggiore e altri lavori di decorazione (1636-39) e nel monastero, con vari lavori svolti nel periodo 1637-43. Nel 1638 predispose degli ambiziosi progetti per il Palazzo del conte Ambrogio Carpegna, riecheggiati solo nel loggiato al pianterreno, nella rampa elicoidale e nell'arco d'ingresso antistante nella realizzazione che, dopo la morte del conte nel 1643, fu proseguita e compiuta a scala più modesta intorno al 1647dal fratello cardinale Ulderico, per il quale nello stesso periodo avrebbe realizzato la sistemazione della tribuna della chiesa di Sant'Anastasia. Intorno al 1639 egli disegna e realizza a Roma l'altare per la cappella dell'Annunziata che fu messo in opera nella chiesa dei Santi Apostoli a Napoli, commessogli già nel1665 da Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli dal 1641, ancora una volta su indicazione del cardinale Francesco Barberini, di cui andrebbe evidenziato maggiormente il ruolo svolto come sostenitore di Borromini. In questo contesto si colloca anche la coeva sistemazione del casino a Monte Mario da destinare a romitorio del cardinale Antonio Barberini detto cardinale di Sant'Onofrio, fratello di Urbano VIII, e soprattutto l'inizio del cantiere della chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza, all'interno dello Studium Urbis di cui era rettore il cardinale Antonio Barberini Juniore, e di cui Borromini fino ad allora aveva svolto il ruolo di architetto in modo pressoché nominale affiancato da Gaspare De Vecchi nelle mansioni ordinarie.
La fabbrica della chiesa fu avviata nel 1643 all'interno del complesso del Palazzo della Sapienza, secondo un progetto che doveva tenere conto dei limiti fisici dell'esedra posta al termine del preesistente cortile porticato rettangolare. L'esedra nel progetto di Giacomo della Porta, autore della configurazione del vasto complesso edilizio, doveva contenere una chiesa a pianta circolare. Borromini accolse svariate influenze linguistiche e iconologiche, legate al fatto che il palazzo era identificato come luogo deputato della Sapienza come sede dell'Università di Roma. Tali influenze sono identificabili a partire dallo schema planimetrico costituito da un esagono che alterna lati concavi e convessi, determinato geometricamente da matrici triangolari, assimilabile alla morfologia dell'ape, simbolo della famiglia papale dei Barberini, nonché in ogni altro aspetto decorativo e strutturale della chiesa (completata strutturalmente nel 1648), in particolare gli alzati che le conferiscono una netta connotazione ascendente con la cupola ripartita in spicchi e la celebre lanterna a spirale che riflette significati biblici e sapienziali, completata nel 1652 (la decorazione interna della chiesa lo sarà solo dopo il 1660).
Il successo
Alla morte di Urbano VIII, Borromini, superati gli ostacoli iniziali si era conquistata abbastanza rapidamente una fortunata carriera e un profondo rispetto nella categoria degli architetti romani, avendo ottenuto alcune tra le maggiori commissioni di quel periodo. Questo era avvenuto nonostante egli non fosse integrato nel sistema degli incarichi ufficiali che garantiva agli architetti pubblici, a cominciare da Bernini, oltre all'esecuzione dei grandi lavori ad essi direttamente connessi, il controllo indiretto della notevole attività edilizia innescata dalle commesse di famiglie private e di enti religiosi. Di tale attività comunque Borromini era stato partecipe non secondario nel 1642, con l'esecuzione del monumento Merlini in Santa Maria Maggiore e nel 1643, subentrando con un nuovo progetto nel cantiere della chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori iniziata l'anno prima per volere della duchessa Camilla Virginia Savelli, secondo un progetto che mostrava eruditi richiami all'antichità classica e a villa Adriana in particolare.
Nel 1644 salì al trono il papa Innocenzo X Pamphili, deciso a smantellare l'ancora persistente potere dei Barberini - che opportunamente espatriarono in Francia - in ogni aspetto, compreso la posizione dominante degli artisti già da loro protetti. Di questa situazione fece le spese principalmente Bernini, che ebbe un notevole calo di commesse, inversamente proporzionale alla crescita della fortuna di Borromini, che entrò nelle grazie del nuovo pontefice grazie all'appoggio di monsignor Spada, suo consigliere, nominato nel 1645 Elemosiniere Segreto.
 Durante i primi anni di pontificato di Innocenzo X, Borromini seppe conquistarsi la completa fiducia del papa, vivendo un periodo di intensa attività: continuò, seppure lentamente, il cantiere della Sapienza, quello di Santa Maria dei Sette Dolori, dove si affidò alla collaborazione di Antonio Del Grande, fino ad abbandonare la fabbrica nel 1646 (proseguita nel 1648 e ultimata contemporaneamente alla costruzione del convento tra il 1658 e il 1667; condotta almeno dal 1662 da Giovanni Battista Contini);
progettò il vestibolo e lo scalone del Palazzo di Spagna, senza però seguirne l'esecuzione (1645-48) affidata ad Antonio Del Grande; restaurò il Palazzo Falconieri in via Giulia ampliandone sia la facciata principale, rendendola simmetrica, sia la parte verso il Tevere con una loggia belvedere ispirata alla Basilica Palladiana di Vicenza (1646-49); disegnò la memoria tombale del cardinale Ceva nel battistero di San Giovanni in Laterano (1650); condusse lavori di trasformazione nel palazzo del principe Andrea Giustiniani, in via della Dogana Vecchia (1650-52); inoltre eseguì un progetto per la cappella familiare del marchese di Castel Rodrigo a Lisbona, ricordato dallo stesso Borromini nel 1647 (la cappella risultava incompiuta ancora nel 1669), e un altro per la sistemazione del presbiterio della chiesa di Santa Maria a Cappella Nuova a Napoli ancora una volta su commissione del cardinale Francesco Barberini (1651c.); per il cardinale Bernardino Spada, fratello di Virgilio, nel 1652-1653 realizzò la Galleria prospettica del Palazzo Spada a Capodiferro, dando prova di grandi capacità nel dominare le leggi ottiche, negli stessi anni fu impegnato nella ristrutturazione della zona orientale del piano nobile e nella sistemazione della piazza antistante realizzando sulla parete che fronteggia il palazzo una meridiana e una fontana, non più esistente, che risultava compiuta nel 1658; partecipò ai piani di sistemazione urbanistica del borgo di San Martino al Cimino (1646-1657), sede del principato Pamphili, progettando la porta romana, e probabilmente la cinta urbana, e realizzando la scala a lumaca nel palazzo Doria.
In questo periodo soprattutto Borromini acquisì incarichi di diretta committenza papale che lo connotarono per un certo tempo come il nuovo architetto di corte, sopravanzando Pietro da Cortona e soprattutto Bernini, già da lui messo in difficoltà nel 1645 con il parere tecnico negativo circa le deficienze statiche del progetto dei campanili di San Pietro. Tra il 1644 e il 1647 infatti egli fu chiamato da Innocenzo X a presentare progetti per un casino nella villa familiare di San Pancrazio, per il palazzo di famiglia e per il collocamento di una fontana con obelisco in Piazza Navona, e per il rinnovamento della basilica di San Giovanni in Laterano. Mentre rimase allo stato di abbozzo il progetto di una cappella di famiglia circolare accanto alla chiesa di Santa Maria in Vallicella.
Del progetto del Casino nella villa Pamphili rimane una puntigliosa relazione sul significato allegorico ed astrologico dello schema generale e di ogni elemento architettonico, in un contesto creativo ai limiti dell'utopia che non ebbe esiti. Anche i progetti elaborati da Borromini per il Palazzo Pamphili e per la fontana in piazza Navona non furono attuati. Per il palazzo, iniziato nel 1646 su progetto di Girolamo Rainaldi, egli svolse solo un ruolo di supervisore, intervenendo direttamente (1650c.) per la sistemazione della copertura del salone centrale posto tra i due cortili, la realizzazione di una scalinata a spirale e la decorazione della Galleria Grande che attraversa l'intero spessore del lotto, con la finestra a serliana verso piazza Navona. Per la fontana con obelisco commissionatagli nel 1647 egli elaborò un progetto molto sobrio che non incontrò il gradimento del papa che preferì affidare l'incarico al Bernini, il quale attuò il suo scenografico progetto rappresentante i Quattro Fiumi tra il 1648 e il 1651.
La commessa più importante del pontefice fu quella, affidatagli nel 1646, del rifacimento della basilica di San Giovanni in Laterano per la ricorrenza del Giubileo del 1650. L'istanza principale che Borromini doveva assolvere in questa occasione fu quella di conservare il più possibile la forma originaria dell'antica basilica costantiniana.
Ciò lo spinse a un intervento sostanzialmente epidermico dello spazio interno, prevedendo anche una nuova facciata a portico e un ampio "teatro antistante" che non vennero realizzati. Non fu attuata neanche la prevista nuova volta della grande navata centrale che avrebbe dovuto ricomporne l'unità proseguendo i partiti decorativi dell'ordine gigante che ripartisce le pareti, per la ferma decisione del pontefice di mantenere il soffitto ligneo a cassettoni cinquecentesco. Cosicché la spazialità originariamente progettata da Borromini rimane avvertibile pienamente solo nelle navate laterali, caratterizzate da una decorazione posta in un costante dialogo con gli effetti di illuminazione.
Un elemento fondamentale in questo senso è la controfacciata che costituisce una vera e propria macchina di luce della navata principale che ne esalta le proporzioni auliche, solo attenuate dalla poco rilevata trabeazione, tali da far pensare a un consapevole contrappunto con l'antistante fronte dell'altare maggiore.
 Il cantiere lateranense condotto a tappe forzate, nonostante alcuni dissidi tra le maestranze, venne funestato nel dicembre 1649 dalla morte del chierico Marco Antonio Bussoni deceduto a seguito di percosse infertegli dagli operai trasgredendo all'ordine dato da Borromini di legarlo solamente per punirlo del danneggiamento di ornamenti marmorei. Con una supplica al pontefice Borromini riuscì ad evitare il processo, a condizione di scontare un confino di tre anni ad Orvieto, poi molto ridotto, durante il quale forse si occupò dei citati progetti per San Martino al Cimino. 
Per ottenere la speciale grazia pontificia Borromini pose sulla bilancia oltre all'opera prestata nella basilica lateranense, il suo zelo e la sua moralità. Tali doti erano universalmente riconosciute all'architetto come testimonia anche Baldinucci: "Fu sobrio nel cibarsi e visse castamente. Stimò molto l'arte sua, per amor della quale non perdonò a fatica". Parallelamente la sua figura cominciava ad essere avvolta da un alone di mistero, alimentato dalla tendenza all'isolamento, che si accentuò a partire dal 1650, quando per la prima volta andò ad abitare da solo in una casa in via Orbitelli (di cui rimane solo la facciata) presa in affitto dall'Arciconfraternita della Pietà dei Fiorentini, riattandola secondo il suo gusto. La bizzarria degli oggetti contenuti nella sua casa tra cui alcuni curiosamente affini alle soluzioni architettoniche delle sue opere, come la chiocciola più volte riferita alla cupola di Sant'Ivo, e un gran numero di libri di legge, di filosofia e naturalmente di architettura, riflettono una personalità assai più complessa di quanto l'approccio pragmatico al cantiere può far supporre. Nutrita di svariati interessi teorici, attenta tanto al mondo sperimentale quanto all'universo teologico, la sua cultura si apriva intimamente a pochi personaggi, come monsignor Spada e il padre gesuita Athanasius Kircher, ma come riporta il biografo Giambattista Passeri: "chi intende perfettamente l'ha sempre confessato per un huomo erudito, intelligente, et assicurato in un perfetto sapere".
 Intanto la fama di Borromini aveva varcato i confini romani come dimostra la sua consultazione nel 1651, assieme a Bernini e a Pietro da Cortona, per un parere sul progetto di Girolamo Rainaldi e Bartolomeo Avanzini per il palazzo Ducale di Modena, sollecitata dallo stesso Avanzini. L'anno seguente egli ebbe uno dei pochi momenti di aperta popolarità, quando durante una cerimonia in San Pietro il papa gli conferì la croce dell'Ordine di Cristo, in base al quale poté fregiarsi del titolo di Cavaliere.
 Tuttavia il crescente successo non contribuì ad agevolare i suoi rapporti con i committenti e soprattutto con i colleghi architetti. Infatti benché Baldinucci sottolinei che "non fu mai possibile il farlo disegnare a concorrenza di alcun altro artefice", l'intransigenza mostrata con i committenti si riverberava anche nei rapporti con i colleghi, anche a costo di dolorose rinunce. Comunque anche i più grandi concorrenti riconoscevano la sua profonda conoscenza dell'architettura, come disse padre Virgilio Spada nel 1657, riferendosi a Cortona e Bernini; in particolare quest'ultimo, alcuni anni prima, gli avrebbe detto "
avanti l'altare di San Pietro, che il solo Borromino intendeva questa professione, mà che non si contentava mai, e che voleva dentro una cosa cavare un'altra, e nell'altra l'altra senza finire mai". Il caso più eclatante al riguardo è la vicenda del cantiere della chiesa di Sant'Agnese in Agone a piazza Navona, nel quale Borromini, per volere di Innocenzo X, subentrò nel 1653 a Girolamo e Carlo Rainaldi, la cui scelta era stata approvata dal pontefice un anno prima, al momento dell'affidamento della sovrintendenza dell'opera al nipote Camillo Pamphili, parimenti estromesso dal cantiere. Borromini demolì completamente l'impianto predisposto dai Rainaldi, modificando radicalmente il rapporto del nucleo centrale concavo della facciata rispetto alla piazza.  Alla morte del papa nel 1655 il rapporto con Camillo Pamphili che riprese la conduzione della fabbrica, già incrinato, si deteriorò definitivamente, per dissensi nella sequenza delle fasi di cantiere certamente alimentati dai Rainaldi, tanto che Borromini lasciò il cantiere nel 1657. La chiesa venne proseguita modificando il suo disegno riguardo la conformazione della facciata, in particolare con la trasformazione del cupolino, il soprelevamento delle torri campanarie e l'accentuazione dell'attico, mentre l'interno manteneva le linee generali del progetto borrominiano impostato su una pianta a croce greca.
 
L'isolamento professionale
Se la successione ai Rainaldi nella fabbrica di Sant'Agnese coincideva con il massimo potere professionale di Borromini che doveva costringere i suoi operai a lavorare a tappe forzate spostandosi da un cantiere all'altro causando malumori tra i committenti, il suo allontanamento aprì il periodo più tormentato della sua carriera, giacché l'avvento del nuovo papa Alessandro VII, preannunciava il grande ritorno di Bernini nel ruolo di architetto di corte che, seppure contraddittoriamente, era stato rivestito da lui per un decennio. Eppure tale mutamento non fu immediatamente avvertibile per Borromini giacché agli esordi del pontificato egli fu impegnato nel grande cantiere del Palazzo del Collegio di Propaganda Fide, iniziato nel 1654, ancora sotto gli auspici di Innocenzo X e dei Gesuiti, grazie ai quali aveva acquisito la carica di architetto del Collegio fin dal 1646.
 Il primo nucleo del Collegio era un piccolo palazzo posto nella piazza di Spagna, ampliato nel 1639 da Gaspare De Vecchi nel quale nel 1638 Bernini aveva ricavato una cappella ovale. Borromini fu impegnato in un complesso intervento che comportò la ricomposizione di diversi ambienti in un organismo articolato in base a criteri estremamente funzionali e il raggiungimento di alti livelli creativi nella
Cappella dei Re Magi, costruita nel 1660-64 dopo la demolizione di quella berniniana, e della nuova facciata sull'attuale via di Propaganda Fide, finita nel 1662 e completata con un attico tra il 1665 e il 1667. La cappella risolve lo schema planimetrico del rettangolo ad angoli smussati, sviluppandolo coerentemente anche nelle linee dell'apparato decorativo in continuità tra superfici verticali e orizzontali. Nella redazione finale della facciata l'ordine unico di lesene è disposto su una parete ripartita plasticamente che riflette la pressione tangente dello spazio esterno della strada.
 Risale ancora allo scorcio del pontificato di Innocenzo X l'incarico del completamento della chiesa dei Minimi Paolotti di Sant'Andrea delle Fratte nel 1653 conferitogli dal patrono il marchese Paolo del Bufalo. All'interno realizzò il transetto, l'abside e la cupola e decorò la cappella Accoramboni. All'esterno l'opera non fu portata a compimento essendo il tiburio che racchiudeva la cupola rimasto interrotta all'altezza del cornicione e privo di intonaco. Tuttavia proprio la rusticità dei quattro contrafforti a croce di Sant'Andrea, conferisce al comparto architettonico una eccezionale intensità plastica e cinetica, particolarmente apprezzabile dal confronto con l'alto grado di definizione decorativa del campanile rivestito di stucco bianco.
Dopo il restauro esterno del Battistero di San Giovanni eseguito nel 1657, all'inizio degli anni sessanta oltre che nei grandi cantieri ancora in corso della Sapienza e di Propaganda Fide, Borromini fu impegnato nell'ampliamento del convento annesso alla chiesa di Sant'Agostino (1659-62), nella copertura del tempietto di San Giovanni in Oleo a Porta Latina (1662) e in alcune commesse riferibili al suo protettore Virgilio Spada: la cappella familiare in San Girolamo della Carità (1660c.), la scala d'onore del palazzo Spada a Capodiferro realizzata prima del 1661, quando morì Bernardino Spada, il palazzo a Monte Giordano, originariamente destinato dallo Spada ad ospitare il Banco di Santo Spirito (1661-62), nel quale accolse alcuni suggerimenti progettuali del committente, e la sistemazione, voluta da Alessandro VII, dei monumenti funebri nelle navate di San Giovanni in Laterano.

L'ultimo periodo
I tanti progetti irrealizzati, quelli rimasti incompiuti e quelli vanamente idealizzati, come la realizzazione della volta di San Giovanni in Laterano, la lentezza con la quale progredivano per mancanza di fondi le fabbriche che aveva iniziato, nonché il progressivo distacco mostrato da Alessandro VII verso la sua architettura, costituirono per Borromini fonti di grande dolore, al quale sempre più a fatica riusciva a reagire applicandosi in maniera pressoché maniacale al lavoro. Tuttavia ciò non si rifletteva nell'acquisizione di nuovi committenti, anzi la sua irosa depressione lo allontanava anche dai vecchi, come i Filippini che nel 1657 decisero di non richiamarlo per lavori di completamento dell'Oratorio da lui stesso progettati.
Negli ultimi anni di vita lavora per altri vecchi committenti come i Falconieri, per i quali nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini portò avanti senza terminarla la cappella familiare, realizzò una cappella sotterranea, si interessò dei monumenti presso l'altare maggiore (1664) e trasformò la loro villa a Frascati (1665).
 Sono noti inoltre altri progetti tra cui quello per la sistemazione della basilica di San Paolo Fuori le Mura, riferibile all'ultimo periodo del pontificato Pamphili, quello per la chiesa di Sant'Eustachio e quelli per la tribuna e il deambulatorio della chiesa di San Carlo al Corso. Tra il 1650 e il 1657 Borromini fornì al padre Virgilio Spada disegni per due altari che la sua famiglia faceva costruire in Emilia.. Per chiesa di San Paolo a Bologna, progettò la mensa antistante la monumentale tribuna del Facchetti. Per la chiesa di Santa Maria dell'Angelo, a Faenza, Borromini si limitò ad apportare qualche variazione a un progetto dello stesso Spada. Ancora grazie al patrocinio di quest'ultimo nel 1661 egli presentò ad Alessandro VII un progetto per la Sagrestia Vaticana, che prevedeva la costruzione di un nuovo monumentale edificio a pianta ovale al posto dell'esistente rotonda di Santa Maria della Febbre.
Il 1662, l'anno della morte di Spada, che lo privava di un grande sostegno, coincise con l'incarico di completare il complesso dei Trinitari al quadrivio delle Quattro Fontane con la facciata del convento sulla strada del Quirinale e quella della chiesa che, pur ultimata del tutto dopo la sua morte, emblematicamente chiudeva la parabola della propria carriera iniziata ad alti livelli trent'anni prima con quest'opera. Nello stesso anno, grazie all'intercessione del cardinale Ulderico Carpegna, il vescovo Alessandro Sperelli faceva realizzare, con il suo consenso, una esatta replica dell'interno del San Carlino nella nuova chiesa di Santa Maria del Prato a Gubbio, straordinaria testimonianza della fama raggiunta. Questa fama è riflessa anche nella descrizione delle sue opere contenuta nel manoscritto della "Roma ornata dall'architettura, pittura e scultura", una guida della città scritta dall'amico Fioravante Martinelli - per il quale Borromini aveva realizzato una piccola casa - recante annotazioni e correzioni di sua stessa mano. L'ultimo periodo di attività di Borromini, anche se meno legata ai cantieri, fu comunque ricchissima sotto l'aspetto creativo sfociando in una gran messe di progetti ideali, non connessi a reali commesse, destinati ad essere incisi e raccolti in una sorta di trattato che forse avrebbe fatto parte della serie di volumi illustrativi della sua opera, iniziata con quelli dedicati al complesso della Sapienza e all'Oratorio dei Filippini (pubblicati postumi dall'editore Sebastiano Giannini con il magniloquente titolo "Opus Architectonicum Equiti Francisci Borromini", rispettivamente, nel 1720 e nel 1725). L'enorme valore che egli attribuiva ai disegni, prefigurandone tutta la potenzialità espressiva, tanto da fargli dire, secondo Baldinucci che "erano i suoi propri figlioli e non voler che egli andassero mendicando la lode per lo mondo, con pericolo di non averla, come talora vedeva a quei degli altri addivenire", rende chiaro come questo tipo di manifestazione creativa assumesse per lui un valore almeno pari rispetto a quella edilizia, perché ci tenesse a fissarli in un trattato, e perché, infine, nella concitazione delle ultime ore di vita abbia preferito darli al fuoco piuttosto che esporli a manomissioni altrui. D'altra parte egli non si era mai curato di trasmettere il suo sapere ad allievi, preferendo avvalersi della collaborazione di semplici esecutori come ad esempio Francesco Righi e Francesco Massari, suo assistente nella fabbrica di San Carlino, nonché ospite della sua casa, mentre le doti del giovane nipote Bernardo Castelli non potevano fargli sperare niente più di una onesta pratica dell'architettura.
La concentrazione ossessiva sul lavoro teorico e l'amara consapevolezza della sua esclusività, dovuta alla progressiva perdita di contatti con l'esterno, accentuò i tratti più oscuri del suo carattere, come narra ancora Baldinucci: "
Egli era solito di patir molto di umor malinconico, o, come dicevano alcuni dei suoi medesimi, d'ipocondria, a cagione della quale infermità, congiunta alla continua speculazione nelle cose dell'arte sua, in processo di tempo egli si trovò si sprofondato e fisso in un continuo pensare, che fuggiva al possibile la conversazione degli uomini stando solo in casa, in null'altro occupato che nel continuo giro dei torbidi pensieri".
Questo atteggiamento, al quale non dovette giovare neanche quel viaggio nostalgico in patria ipotizzato da alcuni, fu all'origine nella notte del 2 agosto del "
caso stravagante e lacrimevole" - usando le parole del diarista Cartari Febei - di Francesco Borromini che "caduto da alcuni giorni in pieno umore hipocondriaco, con una spada, appoggiata col pomo in terra e con la punta verso il proprio corpo si ammazzò". In realtà la morte non seguì immediatamente l'autoferimento, frutto di una sua spropositata reazione al mancato adempimento di Massari ad un suo ordine di avere luce per scrivere, ma sopraggiunse "alle dieci hore dell'alba" consentendogli di confessarsi e di fare testamento dettando lucidamente a un notaio le circostanze e le ragioni dell'accaduto, beneficiando di gran parte dei suoi averi il nipote Bernardo, e stabilendo infine di farsi seppellire nella tomba dell'amato maestro Carlo Maderno nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, senza alcuna indicazione del proprio nome.


Francesco BORROMINI
(Francesco Castelli 1599-1667)
1608 – 1614 Milano come scalpellino (Duomo)

1619 ROMA. Leone Garopo o Gravo (Capomastro di San Pietro). Alla Morte del Garopo egli si affida al Maderno.
1620 Morte del Garopo (Gravo)
1621-23 Collabora come scalpellino al cupolino di Sant’Andrea della Valle e alla Fabbrica di San Pietro (probabili influenze borrominiane addirittura sul Maderno, maggiore fluidità).
Palazzo Barberini per la scala ed interventi alla facciata posteriore.
1625 Collabora alla chiusura della porta Santa.
1629 Morte del Maderno e successione alla fabbrica di San Pietro sotto Bernini.
Baldacchino (copertura superiore)

1634 Convento e Chiostro di S. Carlo alle Quattro Fontane (la facciata è del 1667). Ogni elemento interno rimanda alla totalità, nessuna cesura.
1637 Oratorio e Biblioteca dei Filippini. Come San Carlino lo studio è basato sui percorsi e le interferenze tra funzioni. Facciata: esemplare gioco di linee curve ed elementi che lo caratterizzano dalla chiesa.
1640 Palazzo Falconieri ???? (soffitti)

1644 Elezione di Papa Innocenzo X, periodo per lui di grande fortuna. Affidamento del:
1646 Restauro di San Giovanni
Santa Maria dei Sette Dolori (incompiuta come il tiburio di sant’Andrea delle Fratte).
1642-50 San Ivo alla Sapienza
1653 Chiesa di Sant’Agnese (facciata, campanili non finiti e poco interno, allontanamento da parte dei Pamphili seguito della morte di Innocenzo X di nuovo a favore del Rainaldi).
1653 Progettazione per la famiglia Del Bufalo del completamento dell’incompleta Sant’Andrea delle Fratte (tiburio e campanile); completamento urbanistico insieme alle sinuosità di Propaganda Fide (di fronte).
1652-66 Collegio di Propaganda Fide. Cappella dei Re Magi. Parete annullata dalle grandi finestrature incorniciate da grandi lesene che formano un unico ordine che ha il normale completamento nella volta ad archi intrecciati.
1660-65 Facciata del Convento delle Quattro Fontane.
1665-1667 Facciata della Chiesa delle Quattro Fontane. Realizzata la parte inferiore; la parte superiore dovrebbe essere fedele al suo progetto tranne che per l’infelice medaglione. Lo spazio avvolgente che caratterizza la facciata è l’estrema testimonianza di una battaglia culturale combattuta senza risparmio di energia, tesa a svincolare l’architettura da ogni remora connessa con la concezione volumetrica o per superfici piane, a vantaggio di una concezione nuova che unisce in profondità piani ortogonali e obliqui esaltando nel discorso architettonico un aspetto fondamentale: quello della continuità.

Senza l’intervento di Borromini e l’azione di stimolo da lui esercitata, anche nei confronti dei più famosi ed abili compagni di strada, il barocco romano avrebbe potuto esaurire la sua tematica nell’edonismo e nell’esaltazione contemplativa dell’esperienza vitale.
Egli trae dalle sue umili origini di artigiano, dai suoi legami con la rigorosa disciplina tecnica dei maestri lombardi, dall’estraneità nei confronti del mondo cortigiano, una straordinaria carica etica che innerva e in parte persino rovescia il significato complessivo di un movimento nato da un’intuizione collettiva.

La vocazione borrominiana è quella dell’ostinato rigore; quando egli entra nell’agone della cultura artistica la sua voce è subito polemica: suona rimprovero alla timidezza con cui Pietro da Cortona e Bernini hanno affrontato i temi architettonici e postula la necessità di arrivare fino in fondo nel superamento della cultura manieristica che aveva scosso le basi del classicismo.

L’interesse per lo spazio come fondamentale parametro compositivo è da lui portato avanti differentemente dagli altri: non si accontenta di un controllo empirico dei valori psicologici; proclama la necessità di un metodo che permetta di operare sullo spazio con lo stesso rigore con cui gli architetti del rinascimento operavano sul volume e sulle strutture lineari attraverso il meccanismo delle proporzioni classiche.

Tutta la tradizione lombarda rivive in lui e la rivalutazione del gotico.
Borromini rimane il più “solo” dei protagonisti, il più difficilmente integrabile in una tendenza poiché è l’unico a porre l’accento sul metodo, unico a rifiutare ogni tipo di compromesso e a preferire alla persuasione retorica la convinzione logica.

La presenza di Borromini, come quella di Galileo, di Caravaggio, di Campanella fu la presenza di un ospite tenuto d’occhio con sospetto da tutta una parte, la più potente , della cultura locale.
Della eretica bontà, generosamente riconosciutagli, la città cercò di sbarazzarsi rapidamente per celebrare in pace l’ortodossa malvagità dei conservatori… ma poiché Borromini a differenza del Caravaggio e di Campanella, aveva amato profondamente Roma, ricercandone gli insegnamenti vitali senza inibizioni, la sua traccia fu difficile da cancellare.


ARGAN: L’Europa delle capitali.
LA DEVOZIONE Ridurre la vita religiosa alla
praxis.

LA PERSUASIONE Della borghesia (nuova classe) e del popolo (sempre più cosciente della propria forza).

ARTISTA Posizione minore che nel secolo precedente. Mediatori verso nuovi clienti (borghesia).

ARISTOTELE
POETICA: mimesis di cose differenti; dopo la poetica del Tasso si ha una differente concezione del bello. Ora si imitano i migliori, i simili e i peggiori.
L’IMMAGINAZIONE consente immagini verosimiglianti e non frutto di libero “caproccio” della fantasia. Ciò che frena la fantasia è la premessa storica.

RETTORICA. Arte della persuasione. Si persuade l’uomo della
polis e per poter persuadere bisogna essere persuasi. La Retorica avrà luogo nella città ma anche nella pittura con la grande retorica della figurazione storico-religiosa e decorativo-allegorica e la piccola, sussurrata, o domestica ma sempre persuasiva, retorica della natura morta, della scena di costume.

STATO e CAPITALE La grande creazione politica del Seicento è lo Stato nazionale e la sua forma tipica è la monarchia. Formazione della Città capitale che fa regredire le altre città a ruolo subalterno. Vita politica (rappresentanza), amministrativa (strutture), sociale (prevede un aumento della popolazione) e militare (strutture, vie diritte e grandi
viae Triunphales, le caserme nella città barocca hanno lo stesso posto che il convento occupava nella città medievale): forma urbis studiata da Domenico Fontana e Sisto V.
Strade, piazze, facciate, porte d’accesso.

IL MONUMENTO Il monumento per eccellenza è la basilica di san Pietro.
La piazza per eccellenza è piazza Navona e la fontana dei fiumi.
I monumenti retorici sono un sistema culturale quindi anche nei palazzi sono monumentali i cortili, i saloni ecc… e nelle chiese i lo sono i vari elementi.
La monumentalità si realizza con il ricorso ad elementi tipologici “classici” come la cupola (ogni chiesa ha la sua cupola), i frontoni, le colonne. Inutile cercare in queste forme un contenuto simbolico, perso oramai da molto tempo.
Esprimersi monumentalmente significa nel Seicento esprimersi col sentimento del “grande” nel modo che verrà chiamato “
maniera grande” che sarà una convergenza tra pittura, scultura ed architettura.
Il processo tipico del monumentale è l’
allegoria (A. Carracci, affreschi in Palazzo Farnese). Nel Cortona c’è un fatto nuovo: la pittura può imitarle altre due arti ma non può essere imitata, è l’arte egemone che più direttamente visualizza l’immaginazione.
IMMAGINAZIONE ED ILLUSIONE.
La concezione dello spazio conduce alla variazione continua dei rapporti di grandezza, all’impiego di scale diverse, alla ricerca della “sorpresa” visiva, al passaggio dalla prospettiva ristretta della strada all’ ampiezza della piazza, all’apparizione improvvisa di un monumento, al repentino aprirsi di una veduta. La prospettiva non indica più solamente la posizione immobile di un osservatore ma suggerisce i suoi movimenti attraverso la pluralità o il mutamento degli assi visivi. Si rompe la consueta valutazione delle distanze e delle grandezze. Le poetiche barocche mirano all’illusione e alla meraviglia per far questo si ammira il prodigio dell’agire umano che non ha limiti alle proprie possibilità.
L’immagine non è più soggetta a limiti se non quello della verosimiglianza.

Nel Seicento, invece che rappresentare gli affetti e i moti fisici relativi, si vuole comunicare uno stato emotivo, provocare nello spettatore una reazione sentimentale. Deve esserci nella figurazione qualcosa di inconcluso che tende a continuarsi nell’animo di chi guarda (Mochi,
Veronica, Bernini, estasi di Santa Teresa, Morazzone, san Francesco in estasi).

PERSUASIONE e DEVOZIONE.
Sono i santi che mantengono il contatto tra la vita terrena e la guida celeste. L’immagine fornisce un modello di comportamento.

RETTORICA E CLASSICISMO
La crisi del classicismo coincide con il Manierismo. Il Barocco nel tende a rivalutare, sia pure in termini diversi, l’esperienza storica e naturalistica del classicismo.
Il Caravaggio disprezza l’insegnamento degli antichi, la sua pittura è
praxis pittorica. Più tardi Borromini prenderà esempio da Michelangelo nel suo senso di insoddisfazione.
Il classicismo è vivo nel Bernini e nel Carracci: l’antichità è il tempo in cui la storia dell’uomo si è svolta nella natura; impossibile separare natura e storia. La storia è la base dell’esperienza.
Il tema della morte serpeggia, ostentato od occulto, in tutta l’arte barocca.

Rembrandt/Velazquez/Vermeer.
1) Rembrandt: scetticismo religioso di Bruegel, tesi che il mondo va avanti a casaccio e Dio non governa: folle di uomini che trascinano nel tempo colpe e dolori. Dio non governa il mondo perché è nel mondo, vive con gli uomini e partecipa alle loro vicende. La storia è fatta non di vicende memorabili ma di fatti di uomini. Di tutti i comportamenti umani l’unico che non offenda Dio è il patire.
2) Velazquez: ha dietro di sé il Greco. A differenza di Rembrandt studia a fondo gli antichi. Non è come lui un solitario ma vive a corte.
3) Vermeer: Il
pittore nello studio, volge le spalle al mondo, è dentro il quadro, nasce la rappresentazione non della natura ma della pittura. Egli è il solo pittore olandese per il quale si possa parlare di rappresentazione dello spazio intellettuale.

Gli elementi classici perdono la loro funzione originaria e simbolica:
La facciata: offre due movimenti, uno verso l’interno e l’altro verso l’esterno offrendosi come elemento urbanistico. Non è elemento scenico ma organismo urbanistico essenziale generatore del tessuto urbano. Essa è la cornice alla porta della chiesa
La cupola: spesso non si trova più all’incrocio tra navata e transetto anche se conserva il significato di volta celeste.
Le colonne hanno funzione rettorica; stabilità del dogma pericolante.
Lo spazio architettonico si pone come limite tra lo spazio reale e lo spazio immaginario; il motivo naturalistico andrà sviluppandosi con il complicarsi delle forme. L’architettura è una seconda natura che s’innesta nella prima e la estende con l’opera dell’immaginazione umana che non prende il posto ma continua la creazione divina.
La parete si srotola come scenario in movimento di fronte allo spettatore in movimento.

TEORIA DEI GENERI: Il divario corrisponde tra ciò che Aristotele pone tra commedia e tragedia: le persone della tragedia sono figure storiche, il cui agire e patire interessa tutta la polis e può essere causa di felicità o di dolore per tutti; le persone della commedia sono gente ordinaria,le cui vicende non dipendono da leggi supreme ma dal caso e , se interessano, è soltanto perché mostrano come la piccola gente sia zimbello del caso.
L’arte non ha quindi più la necessità di rappresentare fatti o uomini grandi; la pittura di genere ha comunque precedentemente una tradizione fiamminga.

GLI OGGETTI
Dalla mera imitazione del dato la
poetica di Aristotele offre una soluzione plausibile: l’uomo è portato naturalmente a imitare perché imitando conosce; i prodotti dell’immaginazione danno piacere e questo dipende dal riconoscimento dell’oggetto. Se non si riconosce l’oggetto si prova ugualmente piacere e questo dipende dall’esecuzione.
a) ci sono raffigurazioni precise e minuziose
b) ci sono raffigurazioni meno precise che piacciono per il modo in cui sono stati raggruppati o scelti gli oggetti. Ciò che si apprezza è l’associazione e la combinazione.
Per tutto il Seicento sono due le concezioni della realtà che propongono rispettivamente il valore primario dello spazio o dell’oggetto. Anche in architettura vale lo spazio o l’oggetto a secondo se si parli di Bernini o di Borromini.

IL RITRATTO
Dovrebbe essere mimesi allo stato puro. Da parte dell’artista si compie un processo di analisi, di scelta e di sintesi.
Il ritratto implica un giudizio sociale. La ragione di interesse per il ritratto è che ciascuno è come socialmente appare.
Carracci coglie il naturale, il temperamento del personaggio.
Van Dyck fissa il tipo di ritrattistica ufficiale, l’abbigliamento, le sete, le armature, i monili
Frans Hals: il pittore appartiene allo stesso rango sociale dei suoi modelli, li tratta da pari a pari.
Rembrandt è pittore di solitari. Dipinge sempre il proprio ritratto. Dipinge vecchi: la morte è quotidiano consumo e giungere ad una condizione di solitudine.
Velazquez rinuncia al giudizio.
IL PAESAGGIO
L’indagine della natura ora è compito della scienza e non della pittura.
Nel ventennio dal 1640 al 1660 è il periodo trionfale per questo genere con figure come Puossin e Lorrain (solenni sono i loro paesaggi con le rovine di Roma).
Nei paesaggi olandesi non troveremo più i banditi, gli zingari, i soldati del Rosa ma contadini con le loro carrette verso i mulini, pastori con greggi, cittadini in gita.

PITTURA DI COSTUME
E’ una pittura dialettale che riesce a dire cose che la pittura aulica non può dire. Non bisogna affrontare il tema del bello, è pittura libera di stare al fatto e di compromettersi anche con il brutto.
Diventa subito la pittura della classe borghese, classe che ha bisogno di classificarsi rispetto ad una classe inferiore. Mette in mostra il brutto della gente abbruttita (il brutto grasso, il brutto magro, tutti si assomigliano come musi d’animali e sono sempre nello stesso ambiente malsano, fumoso, mobili rozzi; anche le azioni riportano sempre il bevitore che rovescia il vino, il bambino che strilla o la donna abbracciata all’ubriaco)

LA NATURA MORTA.
Essa cerca all’inizio di passare come pittura simbolica ed allegorica ma è subito chiaro che si tratta di pretesti.
L’esigenza della natura morta non è quella di chiarire il rapporto tra cose e spazio ma tra l’uomo e le cose alle quali è legato da una ragione d’impiego.
La natura morta è il genere prediletto di una cultura borghese.
Ci sono sempre gli stessi modi di raggruppare gli oggetti e gli stessi oggetti per rendere le sensazioni tattili.
La natura morta introduce una nuova concezione dello spazio, raffigurato come illuminazione, oltre la luce non c’è nulla essa è generalmente frontale, spesso c’è una finestra fuori dal quadro riflessa e mostrata da un bicchiere o da un cristallo.
Gli oggetti fanno parte del nostro spazio sociale, sono componenti della società in cui viviamo, siamo legati ad essi da rapporti di simpatia quasi e di collaborazione. Come il ritratto condiziona il rapporto con gli altri uomini, come il paesaggio condiziona il rapporto con la natura. Le figurazioni d’interno e di costume condizionano il rapporto con la casa e la vita famigliare o le vedute di città il rapporto con il paesaggio urbano, così la natura morta condiziona il rapporto con le cose, completando la “collezione d’idee” dell’uomo moderno.

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"È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?" Dostoevski, L'Idiota

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