Articolo pubblicato su l'Aperitivo Illustrato

Scritto critico edito sulla pubblicazione Real Arte per la mostra a Civitanova Marche

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JOHN VAN DER VALK.
Madonne silenziose

di Giacomo Belloni

Il primo di aprile del 2011, nella splendida e prestigiosa cornice dello storico Palazzo Sforza di Civitanova Marche, si sono aperte le porte della prima mostra italiana dell’artista John van der Valk. La mostra, intitolata “Madonne ed Eroi”, organizzata dalla Real Arte, proseguirà fino al 30 di aprile e vuole presentare al pubblico italiano una selezione importante dei più recenti lavori del maestro olandese.

I lavori di John van der Valk sono caratterizzati da magiche atmosfere emotive, rese seducenti da un’iconografia unica ed inconfondibile. Quando ci si trova davanti ad una sua opera, ciò che subito risulta evidente è la forte presenza della figura femminile, dipinta per intero o solo nei dettagli del viso, comunque sempre raffigurata come entità inaccessibile ed eterea.
Le donne di van der Valk sono figure idealizzate, quasi santificate, tanto da essere da lui chiamate
madonne. Sono sintesi di pura perfezione, astratte ed inavvicinabili, protette dall’artista per mezzo di uno strato diafano di pittura superficiale che le lascia trasparire, una patina immateriale che le custodisce pure ed impalpabili. Le sue madonne sono lì, vicine ma irraggiungibili, dietro un impercettibile velo di trasparenza, rinchiuse nella statica oggettualità dell’opera.

Il percorso artistico di John van der Valk parte dal lontano 1979; è incredibile notare quanto un solido filo comune attraversi con forza tutta la sua produzione, legando tra di loro le varie fasi del suo cammino per mezzo di segni e simboli che si ripetono di continuo, con una coerenza spesso disarmante.
Per capire a fondo le sue opere diviene fondamentale ripercorrere, attimo dopo attimo, tutti i suoi periodi espressivi. Occorre fermarsi ad analizzare i particolari simbolici che li caratterizzano e che divengono l’inevitabile preludio iconografico per la fase successiva. Sono il costante denominatore che scorre come un sottofondo musicale, come una melodia che si ripete in continuazione, rinnovandosi sempre, dagli esordi ai lavori recenti.
Van der Valk con precisione assoluta registra ogni istante, ogni elemento significativo, ogni traccia utile, impiegando tutti gli strumenti disponibili affinché nulla sia perso, per non dimenticare. I particolari annotati divengono gli elementi grammaticali che ritroviamo in tutti i suoi lavori. La fotografia, così come la carta, così come la tela, cristallizzano queste tracce espressive sulla bidimesionalità della superficie, permettendo un archivio complesso di simboli eloquenti.

Nel 1979, van der Valk inizia a raffigurare i
bunker - dipinti, disegnati o fotografati - solide fortificazioni da difesa in grigio cemento che fuoriescono disordinati dalla sabbia, costruiti per il presidio delle rive nord-atlantiche della Francia e dell’Olanda. Talvolta l’artista li fotografa in bianco e nero, talvolta li disegna con precisione sui suoi taccuini, spesso li dipinge a monocromo.
I suoi
bunker sono chiare metafore; architetture costruite per cautelarsi da tutte le ostilità, sicuramente esterne, forse addirittura interne. Strutture materiali che rappresentano le barriere immaginarie necessarie per marcare un confine netto tra l’artista e un’umanità invadente, chiare manifestazioni della sua diffidenza nei confronti di un mondo troppo iruento. Corazze robuste e inaccessibili, dove l’unica contiguità tra un fuori e un dentro è rappresentata dalle piccole fessure ricavate nel cemento, tagli di continuità con l’esterno, spiragli indispensabili per una minima sussistenza relazionale e per controllare chi si avvicina troppo alla propria intimità.
La figura del
bunker la ritroviamo in ogni suo dipinto, anche se non in maniera esplicita, soprattutto nei lavori che possiamo osservare oggi da vicino, quelli presenti in mostra. Il bunker è rappresentato su queste opere dalla coltre evanescente che separa le madonne dallo spettatore, proponendo nuovamente quella linea di demarcazione tra lo spazio dell’artista - quello con la funzione protettiva per la sua figura idealizzata - e la dimensione esterna - quella dell’osservatore.
Le ruvide superfici dei
bunker consumate dal tempo dilatato del mare d’inverno, le rughe sulla materia segnata dall’afa asfissiante e salata dell’estate umida del nord, la salsedine che tutto avvolge come un liquido amniotico. I ferri arrugginiti che, come armi da difesa bucano il cemento facendone intendere la fierezza di uno scheletro, sottile ma robusto. La vegetazione incolta che, insieme alle scale costituisce un impedimento al facile accesso; la sabbia disegnata dalle onde e dal vento, essenziale all’artista per delimitare visivamente il confine e per tracciare l’impronta dell’intruso nel caso di avvicinamento non autorizzato.
Tutti questi elementi divengono i particolari iconografici che, dopo il necessario processo di essenzializzazione, si trasformano nei suoi segni caratterizzanti.
Come i
bunker nella salsedine, le madonne sono avvolte da una nebbia vellutata che le sfuma, ammorbidendone i contorni e cancellando la nettezza dei loro lineamenti. Come i ferri e gli arbusti che si librano irregolari, come la sabbia mossa dal vento, l’epidermide della tela si riempie di tracce caotiche, scabrosità necessarie per confondere lo sguardo dello spettatore e per mimetizzare la figura femminile che rimane quasi nascosta dietro, in secondo piano. Come l’impenetrabile cemento delle fortificazioni, sulla tela sono spesso dipinte a monocromo aree regolari a campitura piatta, come fossero scudi da difesa per la sua femmina dipinta in secondo piano.
I suoi segni vogliono essere fattori di complicanza, indispensabili affinché dietro di loro l’artista possa nascondere la
madonna, attraverso una separazione netta e decisa tra esse e la realtà all’esterno dell’opera.

Dal 1980 al 1982, van der Valk lavora alle serie
Markings, Signs, Signs in the snow e Impression. Anche qui la sua ricerca utilizza elementi simbolici efficaci per creare un disorientamento concettuale: cartelli consumati dal tempo vivono nel loro duplice aspetto, formale e funzionale. L’illusione apparentemente confortante offerta dal segnale - immagine pensata per tranquillizzare e fornire un’indicazione sicura - è subito contraddetta dalla provvisorietà della sua condizione oggettuale. La stessa ambiguità si riscontra nelle tracce scolpite sulla fredda supeficie della neve (Signs in the snow), immagini che ci rendono prigionieri dell’attesa, dovuta alla consapevolezza che la loro bellezza presto svanirà per colpa della precarietà dello stato fisico della superficie ghiacciata.
Nelle
Marking series inoltre, l’artista enfatizza la demarcazione dello spazio attraverso l’utilizzo di segnaletiche di separazione utilizzate per dichiarare chiaramente un confine inderogabile.

Le opere di John van der Valk vogliono fuggire dal concetto di finitudine. Per l’artista non è sopportabile che le sue donne, idealizzate e pure, possano non sopravvivere all’evanescenza della materia. Crea quindi due piani pittorici ben distinti e separati per dipingerli sovrapposti, uno avanti ed uno dietro, per ridisegnare l’apparenza visiva di un fluire unitario. Su uno di essi l’artista ripone l’effimero, in modo da lasciare all’altro la possibilità di sopravvivere allo scorrere del tempo. Per il primo utilizza la superficie dell’opera, per intendersi quella con i segni e con i simboli; sul secondo piano, sul fondo, adagia la figura femminile. In sostanza, protegge le
madonne dietro un velo di caducità, lasciandogli il compito di rappresentare l’avanzare del naturale deperimento materico. Come in un fiume, le opere di van der Valk si scompongono in fondo e superficie; tutto scorre verso una destinazione finale ma ciò che è dietro è dimenticato dall’inesorabilità e rimane preservato dal passare del tempo. Egli dipinge l’idealizzazione perfetta del concetto femminile, inteso come essenza pura che resiste alla finitudine, mentre tutto il resto - un mondo costituito da segni e simboli - scorre sulla superficie verso il proprio inevitabile deperimento.
Ancora una volta - come nei
bunker - i Marking ed i Signs vengono simbolicamente sintetizzati per venire tatuati sull’epitelio delle sue opere successive.
Esattamente come per le figure superficiali, il contesto dietro il quale esse vengono rappresentate, riveste per l’artista un valore determinante. L’evoluzione della ricerca sulla superficie pittorica è evidente in alcune serie di lavori, dipinte dal 1981 (
Blackboard) al 1985 (This sound of watersprings, Heart), mentre l’evoluzione della fase segnica si può chiaramente osservare nelle opere eseguite tra il 1989 al 1992 (Gestalt series, Head series).

L’artista dipinge in punta di pennello strati lievi di pensiero sulla tela che diventa il compendio necessario per osservare, solamente a posteriori, la sintesi visiva del percorso di consapevolezza relazionale compiuto. In ogni pennellata è evidente un passo del cammino fatto per l’acquisizione interiore della figura femminile, percepita come entità indispensabile per l’equilibrio interiore.
Il computer svolge un ruolo fondamentale: l’artista vi ha creato un enorme e complesso archivio d’immagini. Sul suo computer egli elabora, compone e crea l'immagine parziale che proiettata sulla tela per essere appuntata a matita. Ciò che ne deriva diviene la base per i suoi dipinti, in attesa della successiva elaborazione pittorica che, inevitabilmente, durante l’agire artistico, rigetta l'immagine originale.
La
madonna è tradotta in pittura con una precisione quasi fotografica, anche se nessuna fotografia viene effettivamente utilizzata.

Ho incontrato John van der Valk a Parigi nel settembre del 2010. Il suo studio è a Belleville. Gli amanti dei romanzi di Pennac sanno che Belleville è il quartiere di Parigi dove convivono razze ed etnie differenti, un quartiere decisamente ricco di folklore e di colori.
Il suo studio è all’interno di una curiosa e affascinante costruzione di legno della fine dell’800, fabbricato che risalta per la precarietà, in contrasto con il solido cemento dei palazzi circostanti. L’ingresso è costituito da una porta sottile, anch’essa in legno, che si apre su una ripidissima ed incerta scala scricchiolante. Per arrivare al suo studio dobbiamo ancora districarci tra pesanti tende divisorie, tappeti e mobilia che confonde l’intruso.
Le sue opere riflettono il suo essere un olandese in terra francese, straniero tra i forestieri che lavora nel quartiere multietnico per antonomasia. Il luogo dove crea e nasconde le sue donne dagli sguardi indiscreti è costruito in legno che, per la sua leggerezza, ricorda lo strato diafano di pittura con cui le ricopre per proteggerle. Il percorso per arrivare al suo studio è impervio e contorto e rievoca gli impedimenti dipinti sulla superficie dei suoi lavori.
John van der Valk non poteva disattendere una coerenza unica, quasi poetica, la stessa che troviamo ed ammiriamo nelle sue opere presenti oggi in mostra a Civitanova.


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"È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?" Dostoevski, L'Idiota
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