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NEW YORK, IL GUGGENHEIM MUSEUM E LA FORMA
di Giacomo Belloni


La rampa elicoidale del Guggenheim emblematizza il divenire, il continuum, l’architettura di percorso. Domato lo scisma tra scale e ripiano, la spazialità è integralmente temporalizzata”. Bruno Zevi.

Mi sono spesso domandato il motivo per il quale un’opera d’arte (piuttosto che un’altra) mi colpisce, mi attrae, mi incuriosisce o mi inquieta. Ciò che cerco è la ragione per la quale essa ha la capacità di suscitare in me determinate emozioni e si distingue, in questo, da migliaia di altre. Ho sempre cercato quel qualcosa che mi “punge” per citare Roland Barthes.
Le forme e i colori che la animano ci trascinano in una dimensione che va oltre il mondo del visibile ed oltre la dimensione razionale. E’ come se i segni dell’opera fossero parte di qualcosa che esiste al di là di ciò che appare, è come se fossero già dentro di noi e si rendessero visibili solo in alcuni momenti. Sembra che l’arte, così come il sogno, sia il canale capace di rendere visibile questa dimensione.
Le forme e i colori dell’arte ci sorprendono anche quando non riusciamo a trovare un parallelo con le forme visibili del mondo corporeo.
Duchamp sosteneva che il gusto è un’
abitudine: se un quadro ci colpisce anche se non propone figure riconoscibili tra le forme tangibili vuol dire che c’è abitudine, i suoi segni vengono dal profondo, sono nascosti dentro di noi e sono segni ai quali siamo abituati.
Dove nasce allora la forma? In quale recondita regione del nostro inconscio essa si nasconde per poter poi essere ritrovata nel mondo del reale?
Non credo che ciò che ci colpisce in un dipinto sia il paesaggio o il ritratto o una natura morta per quanto ben eseguita e, anche se rimaniamo spesso sbalorditi di fronte alla capacità dell’artista di riprodurre fedelmente una situazione riconoscibile, sono convinto ci sia altro. Ci sono sensazioni intense e invisibili che ci attraggono verso l’opera, siamo sollecitati da qualcosa di profondo, tanto profondo quanto necessario che va oltre la capacità “fotografica” del pittore.
Nessuna immagine “costruita” per quanto fedele riproduzione riesce a riproporre la realtà così come la si vede; il mondo sensibile subisce una profonda trasformazione per mano dell’artista e continua a mutare man mano che arriva alla capacità interpretativa dello spettatore e alla sua sensibilità.
Nulla è come in origine. Le forme, i segni, i colori, i grumi, i graffi, le macchie sono strumenti del cuore e sono solo un metodo per riproporre le forme del mondo. Il mondo visibile da parte sua è solo un pretesto per riproporre le forme che sono dentro di noi. Durante il suo itinerario la forma percorre itinerari sottointesi per materializzarsi attraverso le capacità virtuosistiche e comunicative dell’artista.
Per quanto in apparenza oneste riproduzioni del mondo anche le fotografie soffrono degli stessi vizi di mediazione personale delle opere pittoriche e, per quanto possa apparire strano, anche loro non sono fedeli riproduzioni del mondo reale.
L’immagine della forma si materializza quindi nell’opera come traccia della sensibilità creativa dell’artista, testimonianza della sua capacità interpretativa, della sua abilità di vedere là dove non tutti sono capaci; egli rende visibili le forme che normalmente dimorano in una dimensione sospesa, forse poco evidente, ma tanto vera: la dimensione dove nascono le emozioni.
Allora si materializzano forme che sono riproduzioni non del mondo riconoscibile, sono mimesi degli stati d’animo, delle sensazioni più profonde, degli istanti della felicità più vera o delle sofferenze più profonde. Forme tanto irreali quanto vere.
Quando parliamo di forme dell’arte non ci riferiamo solamente a ciò che vediamo dipinto o scolpito. L’arte migliore è senz’altro quella che riesce a portare questa dimensione inconscia all’esterno, in formato naturale, così da poter essere vissuta in quanto spazio. Forme, linee e colori diventano ambiente, tanto grandi da poter essere subiti piuttosto che semplicemente guardati. Lo spazio ci assorbe e ci coinvolge tanto da farci vivere all’interno dell’opera.

L’architettura di Frank Lloyd Wright riesce a coniugare insieme arte, poesia e spazio.
Negli articoli precedenti quando parlavo di opere d’arte mi sono sempre (o quasi) riferito ai dipinti, facendomi trasportare dalla mia inguaribile passione per la pittura. Chiunque però abbia visto dal vero il Guggenheim Museum di New York non può fare a meno di condividere quanto l’architettura, quando interpretata da geni di immenso calibro, sia la sintesi spaziale dell’arte.
Nel libro “Storia dell’architettura moderna”, imprescindibile pietra miliare di questa disciplina, Bruno Zevi apriva il capitolo dedicato a Wright con la seguente affermazione: “
L’inglese è una lingua diversa dopo Shakespeare, come l’italiano dopo Dante; la fisica diviene un’altra scienza dopo Einstein, e così la psicologia dopo Freud; la musica è stata rivoluzionata da Shönberg. Una svolta analoga si verifica in architettura con Wright. Il salto è di tale gittata che pochi sono in grado di misurarlo e nessuno di ripeterlo, sicché la vicenda successiva, specie dagli anni cinquanta in poi, sembra un annaspare convulso e gratuito su temi già risolti nella poetica wrightiana, o un tentativo suicida di sottrarsi, dilapidandola, alla sua eredità”.
La Solomon R. Guggenheim Foundation venne istituita dall’omonimo industriale del rame con lo scopo di custodire la sua collezione personale. L’incarico per la progettazione del museo venne affidato a Wright nel 1943 dalla baronessa von Ehrenwiesen, direttrice della fondazione. Nonostante progettato negli anni ‘40 il museo venne realizzato a partire dal 1956 e inaugurato sei mesi dopo la scomparsa dell’architetto, nell’ottobre del 1959.
La forma del museo, l’illuminazione dell’interno, il suo rapporto con lo spazio circostante, il suo rapporto con l’uomo e le sue dimensioni rappresentano la poetica dell’architetto in questa costruzione. Discostandosi dalle correnti di pensiero a lui contemporanee Wright portava avanti i suoi principi per un’architettura organica “
ecco l’ideale che io propongo per l’architettura dell’era della macchina, per l’edificio ideale lasciamo che si sviluppi l’immagine dell’albero…l’architettura proviene dalla terra ed il luogo, le condizioni dell’ambiente, la natura dei materiali e lo scopo della costruzione determinano la forma dell’edificio”. Come nel mondo naturale egli cerca un rapporto dialettico tra forma e funzione, l’una non è più una conseguenza dell’altra così come intendevano gli architetti a lui contemporanei “è importante notare – scrive Zevi – come lo spazio per Wright si riduca alle sue generatrici; e si ponga così, non in termini geometrici, ma in termini immediatamente plastici. La forma come qualcosa che cresce e crescendo si costruisce, lo spazio è semplicemente la sua zona vitale, il suo costruirsi in una dimensione”.
Nel suo contrastante rapporto con l’esterno l’edificio si propone come una audace spirale rovesciata di colore bianco composta da quattro anelli che tendono a rastremarsi scendendo verso il basso. La cupola di vetro che “chiude” la costruzione in alto “apre” l’interno all’organica illuminazione naturale. L’esterno inclinato e curvilineo contrasta fortemente con le linee parallele e perpendicolari della regolare scacchiera newyorkese e, anche per questo, non rimane indifferente o anonimo al passante. Si viene immediatamente coinvolti nel gioco che l’architetto propone. Tutto tende a trascinare il visitatore verso l’interno offrendo un continuum spaziale unico: è come se si venisse trasportati dentro senza rendersene conto, è come se le bianche pareti si smaterializzassero via via che si procede per trovarsi all’interno, assorbiti dalla spirale e dalla luce naturale che la illumina delicatamente; l’interno come l’esterno e viceversa senza filtri ottici ma come naturale continuazione. A livello della strada le fioriere tondeggianti richiamano le forme superiori e si propongono come un atrio aperto, la strada che continua all’interno del museo. L’arte che si apre all’esterno diventa patrimonio di tutti.
L’edificio si compone di due parti differenti: l’unità che ospita gli uffici e la spirale in cemento che si sviluppa verso l’alto ed ospita la collezione.
Lo spazio interno permette di visitare la galleria senza interruzioni, la rampa elicoidale ci permette una fruizione intima, ininterrotta, continua delle opere senza che ci sia alcun intervallo dovuto alla sovrapposizione dei piani. Così come l’eliminazione delle barriere mentali tra il fuori ed il dentro anche all’interno si ripropone un percorso senza cesure,
è architettura di percorso.
Una serie di asole vitree corre lungo tutta la spirale permettendo un’illuminazione naturale; le opere all’interno sono immerse nella luce dell’esterno. Se oggi troviamo le luci artificiali non fanno di certo parte di quanto Wright proponeva nel suo progetto. La sua architettura dell’integrazione suggeriva la fruizione del percorso espositivo con la stessa luce della città, senza intromissioni sintetiche.
La forma del Guggenheim di Wright è diversa. Si differenzia dalle scatole architettoniche lineari alle quali siamo abituati. Se la forma fa parte di un sistema di consuetudini, Wright rompe con questo sistema per proporci nuove soluzioni. Il nostro disorientamento proviene dal fatto che noi tradizionalisti non riusciamo ad accettare null’altro che le forme consuete. Linee perpendicolare e parallele, simmetria e proporzione altro non sono che linguaggio senza grammatica, preso in prestito da tempi non più nostri.
Se però non abbiamo timore di andare oltre, consapevoli che non esistono verità uniche e che i limiti vengono dalla paura di spostare i confini delle nostre certezze, ecco materializzarsi nuove forme da vivere, da respirare. Non più modelli scatolari costretti dai limiti progettuali. Se il mattone era la base delle costruzioni prima dell’avvento dei nuovi materiali da costruzione, la linea retta era la sua concretizzazione progettuale. Con l’avvento del ferro, del cemento armato e dei nuovi materiali la linea diventa curva, irregolare, lo spazio diventa
liquido, flessibile.
Se la forma è dentro di noi prima ancora che nel mondo e se l’artista è colui che riesce a portarla nella dimensione visibile, con Wright ritroviamo l’architettura originaria, quella che ci avvolge come fossimo in un antro protettore.
Il pensiero moderno dell’artista-poeta ci fa riscoprire le forme che sono dentro di noi e ci libera delle gabbie psichiche costruite dalla nostra paura di andare avanti.


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"È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?" Dostoevski, L'Idiota
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